Sudan è sempre più guerra per procura.
Un bilancio di morte
Gli scontri tra le forze armate fedeli al capo di stato del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan, e il gruppo paramilitare denominato “Forze di supporto rapido”, guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, hanno finora provocato oltre ottocento morti e quasi cinquemila feriti. L’irresponsabile condotta militare delle due parti in conflitto, basata su pesanti attacchi contro i centri abitati, sta flagellando la popolazione civile della capitale Khartoum. Si registrano imponenti flussi di sfollati provenienti dal Sudan e diretti oltreconfine.
Nel frattempo, sono ripresi gli scontri anche nella regione del Darfur, dov’erano iniziati nel 2003: coloro che si scontrano oggi per il controllo del potere sono gli stessi che per 20 anni hanno commesso crimini di diritto internazionale contro la popolazione darfuriana, provocando almeno 300.000 morti e la fuga di tre milioni di persone. La persistente impunità e l’incapacità di garantire un corretto accertamento di responsabilità nei confronti di coloro che sono sospettati di aver commesso crimini di guerra, oggi in una posizione di leadership in Darfur, stanno contribuendo alle violenze ora in corso in Sudan.
“Le testimonianze che ci arrivano dal posto sono terrificanti. Continuiamo ad appellarci alla comunità internazionale affinché non volti nuovamente le spalle al Sudan e non ripeta quanto accaduto nel 2019, quando una sollevazione popolare pose fine al regime di terrore di Omar al-Bashir, ma la popolazione sudanese venne poi di fatto lasciata sola. Le persone sono nuovamente in fuga, vittime di un conflitto tra forze di potere che lottano tra loro per il controllo del paese. È evidente che i civili ne subiscano le conseguenze senza un’adeguata protezione e assistenza. Tale atteggiamento è inaccettabile pretendiamo che le parti in conflitto garantiscano la protezione dei civili e permettano l’accesso agli aiuti umanitari per tutti coloro che ne hanno bisogno. Stiamo assistendo ad un vero e proprio omicidio dell’umanità.” – dichiara Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.
“Quanto sta accadendo in Sudan rappresenta anche il fallimento dell’impegno della comunità internazionale a collaborare alla giustizia internazionale” – commenta Noury – “Infatti, la Corte Penale internazionale ha emesso sette mandati di cattura, quasi 15 anni, fa nei confronti dell’ex presidente al-Bashir e di altri esponenti dell’esercito e dei paramilitari, ma solo uno di essi è stato eseguito. Lo stesso al-Bashir, il principale sospettato, è ancora in fuga e addirittura libero nel suo paese. Di fronte a una situazione così drammatica, è fondamentale l’incessante impegno di Amnesty per la protezione di migliaia di civili, vittime di atroci crimini di guerra: oggi più che mai è necessario il sostegno di ogni singola persona e anche un piccolo gesto, come devolvere il proprio 5×1000 in difesa dei diritti civili, può fare una grande differenza”.
Da un lancio della Dire: “Crescono i timori per le comunità del Darfur, nel Sudan occidentale al confine con il Ciad, anche a seguito della sottrazione di migliaia di armi da depositi della polizia nella città di El Geneina.
La notizia è stata diffusa dopo l’annuncio di un accordo per una tregua di sette giorni tra le parti in lotta, l’esercito che fa capo al generale Abdel Fattah Al-Burhan e le Forze di supporto rapido del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti.
Il cessate il fuoco dovrebbe entrare in vigore domani, a cominciare dalla capitale Khartoum, ma resta da capire se e come sarà rispettato, visti i precedenti tentativi segnati comunque da violazioni diffuse. Secondo il quotidiano online Sudan Tribune, il rischio di un conflitto diffuso in Darfur è stato evidenziato da almeno un dirigente di alto livello in servizio nella parte occidentale della regione, quella più prossima al confine con il Ciad.
Già nei giorni scorsi El Geneina è stata ostaggio di combattimenti. Secondo la testata locale Radio Dabanga, in città a perdere la vita a causa degli scontri sono state almeno 230 persone, mentre i feriti sono stati 350. “Sono in corso attacchi da forze di base nel quadrante sud-occidentale della città” ha detto all’emittente Abdelmonim Adam, avvocato e attivista del posto. “Il sistema sanitario è al collasso e mancano sia l’elettricità che l’acqua potabile”.
La tesi delle fonti del Sudan Tribune è che la sottrazione delle armi possa aggravare lo scontro tra milizie arabe alleate delle Forze di supporto rapido e unità legate invece alle comunità nere dei masalit.
Il pregresso è un conflitto che in Darfur, a partire dal 2003, causò secondo alcune stime 300mila morti e costrinse oltre due milioni di persone a lasciare le loro case.
Prospettive e difficoltà della tregua ventura sono state al centro delle dichiarazioni di Leni Kinzli, portavoce del Programma alimentare mondiale (Pam/Wfp). Il responsabile ha detto che l’organizzazione è pronta a riprendere la distribuzione di cibo dopo lo stop imposto dal diffondersi dei combattimenti.
Kinzli ha però vincolato le attività del Pam alla tenuta del cessate il fuoco e ha sottolineato le conseguenze del saccheggio dei magazzini del Darfur occidentale dove erano custoditi gli aiuti: in pochi giorni sarebbero state sottratte migliaia di tonnellate di razioni.
La tregua non regge
Di grande interesse è il report dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale).
“Non sembra reggere in Sudan la tregua tra l’esercito regolare guidato dal presidente Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di sostegno Rapido (RSF) che rispondono al vice di al-Burhan, il generale Mohamad Hamdan Dagalo, noto come Hemedti. Entrambe le parti si rimpallano la responsabilità degli scontri che – come riferisce il Sudan Tribune – sono tuttora in corso a Khartoum, Omdourman, città gemella della capitale sulla sponda opposta del Nilo, Kafuri e in viarie altre zone del paese, compreso il Darfur. Nonostante le violenze e i bombardamenti, le Nazioni Unite affermano che i generali in guerra hanno accettato di inviare rappresentanti per i negoziati in Arabia Saudita, mentre l’Egitto ha proposto una bozza di risoluzione all’Onu in cui chiede una “cessazione immediata e completa” dei combattimenti, oltre a una riunione d’emergenza della Lega araba al Cairo. Finora, secondo il ministero della Sanità sudanese, almeno 530 persone tra civili e combattenti sarebbero morte negli scontri, e altre 4500 sarebbero rimaste ferite, ma il bilancio effettivo – difficile da calcolare – potrebbe essere molto superiore. Oltre 800mila profughi, intanto, starebbero lasciando il paese attraversando le frontiere con i paesi limitrofi.
Verso il punto di non ritorno?
La guerra tra i due generali rischia di trascinare nel caos il paese di 46 milioni di abitanti, dove la situazione umanitaria sta rapidamente avviandosi verso “il punto di rottura”, come ha avvisato il coordinatore dell’Ocha Martin Griffiths, inviato Onu nella regione. In un comunicato stampa, Griffiths sottolinea che “il massiccio saccheggio di uffici e magazzini” ha rapidamente esaurito la maggior parte delle scorte Onu nel paese. “Stiamo cercando alternative urgenti per introdurre e distribuire cibo e medicinali aggiuntivi”, afferma, ma “la soluzione più ovvia”, cioè fermare i combattimenti, appare al momento “fuori discussione”. “I beni essenziali stanno scarseggiando nei centri urbani più colpiti, in particolare Khartoum, e le famiglie lottano per l’accesso ad acqua, cibo, e carburante”, spiega, mentre “il costo dei trasporti fuori dalle aree più colpite è aumentato in modo esponenziale, lasciando i più vulnerabili nell’impossibilità di spostarsi in aree più sicure”. Secondo le Nazioni Unite, già prima del conflitto circa un terzo della popolazione era a rischio carestia e sopravviveva grazie agli aiuti umanitari.
Prima gli occidentali?
In questa situazione sta generando non poche polemiche il fatto che numerose ambasciate abbiano chiuso gli uffici consolari per consentire ai propri diplomatici di lasciare il paese, senza restituire i passaporti consegnati per le domande di visto. Alcuni cittadini sudanesi hanno denunciato il fatto che con gli uffici chiusi dalla sera alla mattina, i loro passaporti siano ormai inaccessibili. “Sono diventato un ostacolo per la mia famiglia poiché non possono scappare e lasciarmi qui”, ha detto alla Cnn una donna identificata come Zara e il cui passaporto era bloccato presso l’ambasciata olandese a Khartoum. “Per favore, aiutateci a porre fine a questa guerra. E per favore, considerate questo problema dei passaporti. Potrebbe salvare delle vite”. L’Egitto, che dista circa 900 km da Khartoum, è la via di fuga più vicina e percorribile per molti, ma chi non ha il passaporto non può entrare. “Anche se i bombardamenti peggiorano, non potrò andarmene – racconta un residente della capitale ad al Jazeera – perché non ho più il mio passaporto”. La maggior parte delle ambasciate occidentali in Sudan sono state evacuate una settimana dopo l’inizio dei combattimenti. Il ministero degli Esteri olandese ha confermato che un certo numero di passaporti sudanesi sono stati lasciati all’ambasciata dopo che è stata chiusa “con effetto immediato” a causa del conflitto. Anche la Farnesina ha fatto sapere di essere a conoscenza del problema e che cercherà di restituire i passaporti ai cittadini sudanesi “il prima possibile”.
Test per Pechino in Africa?
Memore delle critiche ricevute all’indomani dell’invasione della Russia in Ucraina, per non aver evacuato con sufficiente prontezza i propri cittadini, Pechino non sembra voler commettere lo stesso errore una seconda volta. L’ambasciata cinese a Khartoum ha fatto sapere che continuerà ad erogare i suoi servizi e che più di 1300 cittadini cinesi in Sudan sono stati evacuati venerdì. “Alcuni hanno lasciato il Sudan con navi da guerra e barche cinesi, altri stanno uscendo dal paese”, ha scritto su Twitter l’ambasciatore cinese all’Onu Zhang Jun, aggiungendo che “la Cina ha anche aiutato i cittadini di cinque paesi a lasciare il Sudan con navi cinesi”. Anche Wang Lutong, direttore generale per gli affari europei del ministero degli Esteri cinese, ha osservato che la Cina sta aiutando i cittadini europei in difficoltà in Sudan: “Questo è frutto della nostra visione di una comunità globale con un futuro condiviso. Continueremo a fare il possibile per coloro che hanno bisogno del nostro aiuto per l’evacuazione”, ha scritto. Anche se l’influenza economica cinese in Sudan si è notevolmente ridotta rispetto ad alcuni decenni fa, Pechino rimane un partner commerciale chiave per il paese. Oggi, la lotta di potere tra i due generali mette Pechino in una situazione difficile – osserva Luke Patey sul SouthChina Morning Post – e la sua gestione potrebbe trasformarsi in un test per le ambizioni di Pechino nel continente africano.
Il generale bacchettato
Ne dà conto una documentata analisi di agenzia Nova: “Una delegazione di sicurezza dell’Egitto ha visitato nei giorni scorsi la Libia e ha incontrato il comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), generale Khalifa Haftar, per trasmettere un avvertimento: l’uomo forte della Cirenaica non sostenga le Forze di supporto rapido (Rsf), le milizie paramilitari guidate dal generale Mohamed Hamdan “Hemeti” Dagalo coinvolte nel conflitto in Sudan. Lo ha riferito il sito web dell’emittente televisiva qatariota “Al Araby”. Haftar avrebbe risposto alla delegazione egiziana – in una riunione nel quartier generale dell’Lna nella base di Ar Rajma, vicino Bengasi – che non è responsabile di alcun sostegno fornito dal gruppo paramilitare russo Wagner, di cui si avvale anche il generale libico, alle milizie sudanesi di Hemeti. “Al Araby” ha aggiunto che il Cairo ha espresso preoccupazione per questo dossier ai governi occidentali, fornendo loro i dettagli sui trasferimenti dei mercenari affiliati a Wagner dalla Libia al Sudan. In particolare, l’Egitto avrebbe condiviso con i funzionari occidentali informazioni di intelligence riguardanti l’arrivo di un gruppo di combattenti siriani provenienti da uno dei campi del gruppo Wagner presenti in Siria. Secondo il network qatariota, le informazioni trasmesse dal Cairo includevano anche il trasferimento di “equipaggiamento militare qualitativo” in possesso di Wagner in Libia alle Forze di supporto rapido in Sudan, compreso uno dei sistemi di difesa aerea Pantsir.Il conflitto in Sudan tra l’esercito di Abdel Fattah al Burhan e le milizie di Mohamed Hamdan “Hemeti” Dagalo rischia in effetti di incrinare l’asse formato dal generale Haftar e dal presidente dell’Egitto, Abdel Fattah al Sisi. Secondo un articolo del “Wall Street Journal”, che cita non meglio precisate fonti informate, il comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico avrebbe inviato “almeno un aereo per trasportare rifornimenti militari alle Forze di supporto rapido (Rsf) al Sudan”, mentre l’Egitto avrebbe “inviato aerei da guerra e piloti per sostenere l’Esercito sudanese”. Fonti libiche hanno riferito ad “Agenzia Nova” che ci sono stati “almeno tre voli, non per andare in Sudan ma per scaricare armi e munizioni a Kufra, nel sud-est della Libia, che sono state poi trasportate via terra oltre il confine”. Secondo il “Wall Street Journal”, Hemeti e Haftar si erano già aiutati a vicenda in passato. In particolare, il generale sudanese ha inviato combattenti per aiutare Haftar durante il tentativo, fallito, di impadronirsi della capitale libica Tripoli nel 2019. Ancora oggi, i miliziani sudanesi affiliati al generale Dagalo svolgono funzioni di guardia nelle strutture militari dell’Lna. Haftar e Hemeti sono, inoltre, alleati con gli Emirati Arabi Uniti, Paese che ha sostenuto Haftar militarmente in Libia e che avrebbe reclutato gli uomini di Hemeti per combattere in Yemen, teatro di un conflitto civile dal 2014.
Da parte sua, l’Egitto ha allacciato legami molto stretti con il Consiglio sovrano del generale al Burhan, effettuando frequenti esercitazioni militari congiunte, l’ultima delle quali a inizio aprile presso la base navale di Port Sudan. A preoccupare l’Egitto è principalmente il dossier della Grande diga della rinascita (Gerd), la maxi infrastruttura in fase di costruzione sul Nilo Azzurro e ritenuta dal Cairo come una minaccia esistenziale alla propria autonomia energetica. Secondo l’analista senior dell’International Crisis Group (Icg), Claudia Gazzini, contatta da “Agenzia Nova”, “l’Egitto è schierato con le forze dell’esercito sudanese”, mentre “i combattenti sudanesi presenti in Libia sono affini alle Rsf per questioni di etnia, come le minoranze Fur e Zaghawa. Anche i combattenti ciadiani in Libia, che sono principalmente Goraan, potrebbero gravitare nell’orbita delle Forze di supporto rapido”. E’ difficile appurare il numero esatto di combattenti mercenari sudanesi e ciadiani in Libia. “Per quanto riguarda i ciadiani, le stime sono di 1.000-1.500 (mercenari) tra Fact e altri due gruppi dell’opposizione. Questi sono basati principalmente a sud di Murzuq, lungo il confine con il Ciad, e rientrano nelle forze affiliate al governo di Tripoli, anche se anni fa, nel 2015, erano con Haftar. Seppur inquadrati nei ranghi del governo tripolino, ad oggi non sembrano essere operativi”, ha aggiunto Gazzini.
I combattenti sudanesi, invece, sono per lo più dislocati nell’est e nel sud-est della Libia. “Sono usati attivamente dalle forze di Haftar per lo più come guardie. Dove siano basati esattamente è meno chiaro. Sembra che siano dislocati nelle varie installazioni controllate da Haftar, che siano aeroporti, terminal petroliferi o pozzi”, aveva aggiunto Gazzini. Da parte sua, il portavoce dell’Lna, Ahmed al Mismari, ha smentito categoricamente ogni ingerenza nel conflitto sudanese. “Il comando generale delle Forze armate arabe libiche nega categoricamente di fornire sostegno alle parti in Sudan”, si legge nella dichiarazione, in cui si aggiunge che l’Lna ha intrapreso contatti con le parti coinvolte nella crisi ed è pronto “a svolgere un ruolo di mediazione tra i fratelli in Sudan per fermare i combattimenti”.
Post scriputm. Il generale Haftar è stato ricevuto con tutti gli onori a Palazzo Chigi dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dopo aver incontrato ieri il ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio, Antonio Tajani.
Gendarmi cercasi nella sponda sud del Mediterraneo. In Libia poi…Da un lancio dell’agenzia Askanews: “Secondo quanto si apprende, l’incontro di oggi a Palazzo Chigi tra la premier Giorgia Meloni e il generale libico Haftar è stato l’occasione per uno scambio su temi fondamentali di reciproco interesse, in particolare la crescita “senza precedenti” del fenomeno migratorio verso l’Italia”.
Incredibile ma vero. Ma se Haftar è uno di quelli che usa la “bomba migranti” per provare a ricattare l’Italia!