“Il governo Netanyahu specula sul sangue arabo israeliano”. E’ il titolo dell’articolo-denuncia di Odeh Bisharat pubblicato da Haaretz.
Scrive Bisharat: “Benjamin Netanyahu una volta ha detto: “Quando parliamo dei prezzi delle case, del costo della vita, non dimentico nemmeno per un secondo la vita stessa”. Allora parlava per metafore; oggi ciò per cui gli arabi stanno realmente combattendo è la vita stessa – una vita senza spargimenti di sangue, lacrime e funerali. Gli arabi israeliani vengono uccisi giorno dopo giorno e non se ne vede la fine. Nel frattempo, l’architetto del colpo di Stato ha proposto un accordo: “Aiutami con la revisione del sistema giudiziario e vedrai una vera applicazione della legge”, ha detto il ministro della Giustizia Yariv Levin al legislatore della Knesset Mansour Abbas, dopo che quest’ultimo gli aveva chiesto di fare qualcosa per la violenza che imperversa nelle strade arabe. La risposta di Levin è stata simile all'”offerta che non puoi rifiutare” di un mafioso: se non mi sostieni, il sangue continuerà a scorrere nelle strade delle città arabe.
C’è qualcosa di più agghiacciante della risposta di Levin? Le uccisioni continuano e lui propone cinicamente di negoziare con i leader arabi. Se gli arabi daranno il loro appoggio a una dittatura, il governo intraprenderà il tanto atteso giro di vite sulla criminalità – questo era l’accordo che aveva messo sul tavolo la scorsa settimana per la comunità araba. Due opzioni, con quella dolce piena di amarezza. Nei nostri peggiori incubi, non avremmo mai pensato che il governo avrebbe mai barattato il sangue arabo. Negli anni ’50, Moshe Sharett si chiedeva “se questo fosse un Paese di diritto o un Paese di ladri”. Dopo 70 anni, possiamo dire con certezza che Israele è caduto così in basso che la bruttezza di quei giorni sembra ora bellissima al confronto. Allora la scelta era tra la legge e la rapina; oggi è tra la legge e lo spargimento di sangue. Viviamo in un’epoca in cui i funzionari speculano sul sangue. Il governo non si considera il leader di un Paese, ma il capo di una banda con un’agenda – una banda che non ha linee rosse.
Da quando l’attuale governo Netanyahu ha assunto il potere, io e i miei amici abbiamo avvertito che la popolazione araba sarebbe stata la prima vittima della revisione giudiziaria. Ora sembra che fossimo ottimisti. Oggi il governo non si accontenta che la popolazione araba rimanga ai margini delle proteste. Il governo vuole che gli arabi siano una frusta contro i loro fratelli ebrei che combattono l’assalto fascista. L’appetito vien mangiando, dice il proverbio. Non basta che gli arabi stiano seduti in silenzio, devono unirsi ai ranghi del governo, essere i mercenari di Levin.
L'”offerta” di Levin non è solo un campanello d’allarme per la comunità araba. È anche un avvertimento agli ebrei israeliani che lottano contro la dittatura, sia nelle strade che attraverso i partiti e le organizzazioni politiche, che se continuano ad abbandonare il pubblico arabo e a servirsene solo quando ne hanno bisogno – allora, come scrive Jack Khoury, il governo ha un ruolo per il pubblico arabo che non avremmo mai potuto immaginare nei nostri sogni più selvaggi.
Ma il messaggio principale è rivolto alla leadership dell’opinione pubblica araba – i partiti politici, le istituzioni rappresentative, le organizzazioni della società civile e le personalità pubbliche: È molto pericoloso rimanere seduti sulla barricata. È un invito per un governo malvagio ad affondare le sue fauci nella carne e nel sacro dei santi della società araba. Dobbiamo invece lottare, rimanere vigili contro i pericoli che corriamo e rafforzare i ponti con l’opinione pubblica ebraica, che oggi – nonostante una leadership prigioniera di una concezione obsoleta – è più pronta a intraprendere una lotta comune perché più attenta e coraggiosa che in passato.
A livello operativo, propongo che il prossimo sabato sera o quello successivo sia dedicato al pubblico arabo sotto la bandiera di “Fratelli per una cittadinanza condivisa”. Gli attivisti della protesta, che sono così bravi a formulare slogan che parlano ai cuori e alle menti, dovrebbero formulare slogan che riguardano l’uguaglianza – l’uguaglianza nel modo in cui la polizia tratta il crimine e in tutti gli ambiti della vita. È tempo che dalla protesta esca qualcosa di fresco e civile. Siamo stanchi del militarismo, siamo stanchi delle barelle, sia che ci si trovi sotto o sopra di esse”.
Cittadini di serie B
Così un editoriale del quotidiano progressista di Tel Aviv: “Gli atti di omicidio nella comunità araba non accennano a diminuire. I quattro omicidi di mercoledì hanno portato il numero a 68 quest’anno. L’aumento della violenza nella società araba è dovuto a un problema più profondo di giovani che non lavorano e non vanno a scuola. Un rapporto dello State Comptroller ha rilevato che un terzo degli arabi di età compresa tra i 18 e i 24 anni – 22.000 uomini e 35.000 donne – sono considerati Neet (né occupati né impegnati in corsi di istruzione o formazione), un tasso doppio rispetto a quello dei Paesi appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Questo rischia di portarli a provare sentimenti di inadeguatezza e a compromettere le loro abilità sociali, oltre che a entrare in un circolo vizioso di povertà, criminalità e violenza. Questo fenomeno non può essere separato dalle politiche discriminatorie e dall’incuria dei governi israeliani che si sono succeduti nel corso degli anni, che si è manifestata in parte con l’aumento del divario economico e sociale tra ebrei e arabi e con la disuguaglianza nel mercato del lavoro.
I giovani del settore ebraico hanno un “percorso naturale e obbligatorio” da seguire dopo aver terminato la scuola superiore: l’esercito, il servizio nazionale civile o la yeshiva. Non è così nella società araba, quindi non sorprende che, secondo il rapporto del Controllore, negli anni dal 2015 al 2021 il tasso di criminalità tra i giovani arabi sia aumentato del 50%. Così come il numero di omicidi e di sparatorie, altre manifestazioni dello stesso fenomeno. Affrontare questi problemi dovrebbe essere un interesse nazionale prioritario per i ministeri. Dovrebbero stanziare fondi per aiutare i giovani arabi ad acquisire le competenze mancanti e fornire loro gli strumenti per raggiungere un’istruzione superiore e un impiego. Questo dovrebbe andare di pari passo con la lotta alla criminalità nella società araba. Il governo del “cambiamento” ha cercato di affrontare questi problemi, anche se non con pieno successo. Mansour Abbas (Lista Araba Unita) ha collaborato con la coalizione per migliorare le infrastrutture e le condizioni degli arabi israeliani. Yoav Segalovitz, all’epoca viceministro della Pubblica Sicurezza, ha guidato un’iniziativa che ha coinvolto tutti i ministeri per combattere la violenza e gli omicidi nella comunità araba.
L’attuale governo non sembra affatto infastidito da queste sfide – anzi, per alcuni dei suoi membri, le uccisioni sono una caratteristica inevitabile del settore arabo. Un governo il cui ministro della sicurezza nazionale è un razzista ultranazionalista sta inviando esattamente questo messaggio.
Alla luce del dibattito di mercoledì sul modo in cui il governo ha risposto al lancio di razzi da Gaza, il Likud ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che “se questo è inaccettabile per il ministro Ben-Gvir, non deve rimanere nel governo”. Possiamo solo sperare che Ben-Gvir accetti la raccomandazione e lasci la coalizione con il suo partito estremista. La società araba ha bisogno della seria attenzione di ministri interessati a risolvere i problemi, non ad aggravarli”.
Il “popolo invisibile” e quella ferita aperta
Diviso, corteggiato, disincantato. Il “popolo invisibile” (definizione di David Grossman che dà il titolo di uno suo bellissimo libro-reportage, ) ovvero la comunità araba israeliana.
Della comunità arabo-israeliana, Ahmed Tibi, è una delle figure storiche, nel mirino della destra oltranzista israeliana per le sue posizioni radicali. Per colui che fu anche consigliere personale di Yasser Arafat, la legge dello Stato-nazione, approvata a maggioranza alla Knesset, il 19 luglio 2018, indica la via dell’apartheid. “Ha un elemento di ‘supremazia ebraica – spiega il parlamentare della Joint List – e la creazione di due classi separate di cittadini, una che gode di pieni diritti e una che ne è esclusa – e anche nel secondo gruppo vi è uno sforzo per creare diverse categorie”. Preoccupazione condivisa anche da Amir Fuchs, ricercatore dell’Israel democracy institute: “Il problema è che questa legge cambia l’equilibrio tra Israele come democrazia e Israele come Stato ebraico ed è molto chiaro che il legislatore non ha incluso il principio di uguaglianza tra i fondamentali come era scritto nella Dichiarazione di Indipendenza”. Tibi rifiuta la differenziazione fatta dai sostenitori della legge sulla nazionalità tra diritti collettivi, di cui godono gli ebrei, e diritti individuali, che sono dati a tutti gli altri. I diritti individuali, compresi quelli culturali e politici, derivano dall’appartenenza a una collettività, come la grande minoranza araba in Israele, sostiene deciso. Una considerazione, quest’ultima, che trova il consenso di uno dei più autorevoli scienziati della politica israeliani, il professor Shlomo Avineri, che in un editoriale su Haaretz ebbe a esprimere e la stessa posizione: “Non si possono separare i diritti dei singoli cittadini dalla loro coscienza sulla loro identità, cultura, tradizione, lingua, religione e memoria storica”. Gli arabi stanno protestando contro i tentativi per ridimensionare il loro status, dice ancora Tibi, in uno scenario di settant’anni di discriminazione ufficiale. Un disegno in continuità mirato a quanti Tibi definisce “cittadini indigeni”. Il messaggio è netto, chiaro, brutale: sei tollerato e dovresti accontentarti delle nuove strade e delle cliniche che creiamo per te di volta in volta.
“Noi siamo, noi ci sentiamo arabi israeliani – continua Tibi -. E per questo continuiamo a batterci perché Israele sia lo Stato degli Israeliani. Ma nessuno può chiederci di chiudere gli occhi di fronte a ciò che avviene nei Territori occupati, ad una repressione che si fa sempre più brutale, all’istaurazione di fatto di un regime di apartheid. Le nostre critiche non sono diverse, e neanche più dure, di quelle che si leggono su Haaretz o che sono contenute in appelli di intellettuali israeliani, ebrei, o in documenti dell’Onu o delle più importanti organizzazioni umanitarie internazionali. Solo che se queste critiche le facciamo noi, noi arabi israeliani, scatta in automatico l’accusa di sempre: ‘ecco, vedete, di costoro non possiamo fidarci, sono il cavallo di Troia dei Palestinesi in Israele…’. E’ una critica preconcetta, strumentale. E’ da Israeliani che affermiamo che la pace è l’unica strada percorribile per diventare un Paese normale, totalmente integrato nel Medio Oriente. Da Israeliani diciamo che la sicurezza d’Israele e il diritto dei Palestinesi ad uno Stato indipendente sono le due facce di una stessa medaglia: quella di una pace giusta, e proprio perché tale, una pace durevole. Noi arabi israeliani rivendichiamo con orgoglio la nostra identità, conosciamo la Storia, ma non brandiamo identità e Storia come armi per creare divisioni nella società israeliana. Di questa società, piaccia o no ai signori Netanyahu, Lieberman, Bennett, noi ci sentiamo parte. Una parte che rivendica con orgoglio le proprie radici culturali, linguistiche. Ed è per questo, che tra le norme contenute nella legge, quella una di quelle che più hanno ferito gli arabi israeliani, è stato il declassamento della lingua araba, non più considerata come seconda lingua d’insegnamento.” Conoscere la propria lingua, far sì che sia parte di un corso di studi, rafforza una comunità nazionale, la fa sentire, in ogni sua componente, più partecipe. Così invece si umilia una sua parte”. “La legge dello Stato- nazione non solo produce segregazione razzista in Israele, ma sbatte la porta su una giusta soluzione diplomatica dell’istituzione di uno Stato palestinese nei confini del 1967 insieme a Israele… La nostra lotta per la pace, l’uguaglianza e la giustizia sociale non è limitata al discorso ebraico in Israele. In ogni arena, compresa quella internazionale, i miei colleghi e io di Hadash e la più ampia alleanza Joint List continueremo a combattere con determinazione e a testa alta contro l’occupazione e l’apartheid. La scelta per tutti noi, ebrei e arabi, è chiara: democrazia reale o etnocrazia nazionalista. La nostra mano è tesa a tutti coloro che credono nei principi di giustizia e libertà e non si arrendono alla deriva fondamentalista in atto”, incalza la parlamentare Aida Touma-Suleiman, direttore responsabile di Al-Ittihad, l’unico quotidiano in Israele in lingua araba, fondatrice a Nazareth nel 1992 del gruppo arabo femminista, Donne contro la violenza, la prima donna arabo-israeliana a capo del comitato della Knesset sullo status delle donne e dell’uguaglianza di genere. Molte volte, quando si scrive o si parla, d’Israele viene “spontaneo”, o quasi, riferirsi ad esso come “Stato ebraico”. Tanto più ora, che questa definizione è stata “costituzionalizzata”. Ma poche volte, quasi mai, si pensa a quel 1,8 milioni di israeliani (oltre il 22% della popolazione) che ebrei non sono e che quella definizione fa scomparire.
E in questa riflessione c’è tutta la trasformazione d’Israele da democrazia a etnocrazia o, per usare una definizione efficace rilanciata dal direttore di Limes, Lucio Caracciolo, a democratura, di cui il governo più di destra nei 75 anni di storia dello Stato d’Israele è espressione.
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