Una protesta “monca”. Una “rivoluzione” a metà. La battaglia per la difesa dello stato di diritto non può disconoscere il diritto di un popolo sotto occupazione. Israele e la questione palestinese. Un nodo irrisolto, una ferita che continua a sanguinare.
Una rivoluzione a metà
Ne scrive, su Haaretz. Ayman Odeh, membro della Knesset, presidente del partito Hadash-Ta’al, uno dei leader della comunità araba-israeliana.
“Per 22 settimane, centinaia di migliaia di cittadini israeliani sono scesi in piazza per lottare per la democrazia. Questo è impressionante e commovente, e suscita in me un grande rispetto. Non sono stato invitato a dire nulla in queste manifestazioni. Non sono ferito o sorpreso, eppure so che queste centinaia di migliaia di manifestanti sono i miei futuri partner nella creazione di una vita migliore per questo Paese. Forse le mie posizioni sono difficili da accettare per alcuni di loro, forse gli organizzatori hanno scelto di nascondere alcune opinioni, preoccupati che parlare dell’occupazione e della pace allontanasse molti dei manifestanti.
Approfitto quindi di questa tribuna per rivolgermi ai cari manifestanti di Kaplan Street e chiedere loro di dedicare qualche minuto a riflettere sul nesso tra democrazia e occupazione.
Viviamo in una realtà tragica in questo Paese, che ha conosciuto così tanti spargimenti di sangue, che la parola “pace” suona quasi estranea. È paradossale, visto che sappiamo che la questione della pace, o “del conflitto”, come si ama chiamarla, è la più importante.
La stragrande maggioranza degli israeliani e dei palestinesi desidera vivere in sicurezza, senza guerre, senza conflitti. Ma anche se ci sono molte persone che lavorano per la pace, l’occupazione diventa sempre più dura e la pace si allontana.
Alcuni credono che il conflitto possa essere gestito, che non sia necessario risolverlo. Ma nelle ultime settimane, con un’altra serie di orribili violenze, con il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite della Nakba palestinese del 1948, con la Marcia delle Bandiere razzista e con la violenza nei confronti dei palestinesi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, abbiamo ricevuto un altro promemoria di quanto sia sbagliata questa concezione.
Una politica di gestione del conflitto ignora completamente la vita quotidiana di milioni di palestinesi che si svegliano ogni giorno con un altro giorno di controllo oppressivo sulle loro vite. Per loro, la gestione del conflitto non è una strategia con cui si può convivere fino al prossimo round, ma piuttosto una realtà di sofferenza continua che si ripercuote su entrambe le parti.
Ci sono anche coloro che non sono interessati a gestire o risolvere il conflitto, ma a risolvere il problema palestinese con il fuoco messianico del trasferimento, un’esacerbazione della violenza e una rapida adozione di un abominio inimmaginabile. Non ho alcun rapporto con queste persone, ovviamente, ma per mia gioia sono ancora una minoranza, anche se attualmente occupano posizioni di potere nel governo. Ma la nostra tragedia è più complessa. È una tragedia che consiste in una realtà in cui la maggioranza di entrambi i popoli è favorevole ai negoziati per una vera pace, basata su due Stati, ma non ci sono colloqui in corso. È una tragedia perché la maggior parte delle persone, dopo essersi disperata, non affronta la questione. Gli israeliani sanno che l’unica soluzione a lungo termine che non ricordi i regimi oscuri è un accordo di pace tra le due nazioni. Credo che se lo chiedessimo alla maggior parte degli israeliani, saprebbero persino indicare le principali componenti di tale pace, che sono quasi di buon senso. Ma nonostante la semplicità, molti credono che non sia possibile in questo momento, se mai lo è stato.
Questo è profondamente tragico, perché non siamo in una situazione di stasi, in una situazione in cui l’attesa lascerà le cose immutate, in entrambe le direzioni. La nostra situazione è più simile a quella di una pentola a pressione in fase di riscaldamento, che esploderà se continuiamo ad aspettare senza agire. Ciò potrebbe assumere la forma di una terza intifada, di una guerra a Gaza o di qualsiasi altra forma di spargimento di sangue distruttivo che comporterà migliaia di vittime da entrambe le parti. Ecco perché è importante per me fare appello a tutti i cari manifestanti. Il movimento di protesta non può continuare a ignorare l’occupazione. Dopo tutto, la ragione di fondo per cui si cerca di mandare in frantumi il sistema giudiziario, la società civile e i confini democratici è quella di dare al fascismo mano libera nei territori, per potervi perpetrare crimini orribili senza alcuna interferenza. In un senso più profondo, l’occupazione è il cordone ombelicale del fascismo israeliano. In ogni altro luogo del mondo, il fascismo cresce o dal grande capitale o dalle file dei generali dell’esercito, ma qui sia i generali che il grande capitale si oppongono alla revisione del sistema di governo. Qui, la fonte del fascismo è l’occupazione e gli insediamenti, da cui provengono Itamar Ben-Gvir, Bezalel Smotrich e Simcha Rothman e dove si trova il loro principale sostegno. Pertanto, la richiesta di porre fine all’occupazione deve essere parte integrante della protesta, basata sulla consapevolezza che non c’è democrazia insieme all’occupazione e che quest’ultima ha bisogno di una revisione giudiziaria per alimentare questo ciclo che si auto-perpetua.
Questa settimana ricorrono i 56 anni dall’inizio dell’occupazione. Quella che iniziò con il nome sbagliato di Guerra dei Sei Giorni si è trasformata in una guerra durata 56 anni. Per ricordarlo, sabato abbiamo deciso di organizzare una marcia che è partita da Dizengoff Street per poi unirsi alla manifestazione più grande in Kaplan Street. La marcia aveva un’unica richiesta: porre fine all’occupazione e chiedere una pace basata su due Stati per due popoli.
Spero di cuore che molti si uniscano a questa causa: Ebrei e arabi, chiunque nutra ancora speranza, ma anche persone che provano una profonda disperazione, che forse vedranno che marciando con noi non sono soli. Forse guadagneranno un po’ di speranza in questo periodo buio. Abbiamo il dovere di alzare insieme la bandiera della pace, altrimenti la bandiera nera dell’occupazione continuerà a sventolare. Qualcuno dirà che queste sono speranze inutili. Che questa è la realtà e che bisogna semplicemente accettarla. Ma anche se molti hanno disperato della pace, dobbiamo ricordare che nel 2001 e nel 2008 ci siamo andati molto vicini. E che tutti i tiranni sono destinati a cadere alla fine, che ogni popolo occupato continuerà a lottare per la propria libertà e che la pace vale ogni sforzo. Sono pieno di speranza che dopo aver sconfitto la disperazione potremo, insieme, portare la pace”.
L’inizio del non ritorno
In quel dibattito che ha rappresentato l’inizio del non ritorno, luglio 2018, Odeh era intervenuto alla Knesset sventolando una bandiera nera: “Questa è una legge crudele. Oggi dovrò dire ai miei figli, e a tutti i figli delle città arabo-palestinesi del Paese, che lo Stato d’Israele ha dichiarato che non ci vuole più qui, che d’ora in avanti diventiamo cittadini di seconda classe”. “A colpi di maggioranza, Israele ha perso la sua anima originaria – afferma Odeh – Quella legge che segna un punto di non ritorno, sancisce la realizzazione di una idea di Stato, di popolo, di comunità, che si fonda sull’appartenenza etnica, sull’affermazione di una diversità che crea gerarchia, che al massimo può contemplare la tolleranza ma mai una piena inclusione”. Resta il fatto, ribattiamo, che i sostenitori della legge affermano che l’identità ebraica era a fondamento dello Stato d’Israele sin dalla sua nascita.
Se è così, perché la rivolta? “Se fosse un fatto logico, conseguenziale – risponde senza esitazioni Odeh – non si capirebbero le critiche e l’opposizione a questa legge che sono venute non solo da settori importanti, non solo intellettuali, della società ebraica israeliana ma anche dalle componenti più liberali della Diaspora ebraica. Quella legge è uno strappo ideologico voluto dalla destra oltranzista che oggi governa Israele. Ogni norma di quella legge risponde a una visione messianica d’Israele, del suo popolo eletto, di uno Stato che viene ridefinito a partire da questa visione fondamentalista. Un ‘pregio’, però, questa legge ce l’ha: quello della chiarezza. I sostenitori di questa legge rifondativa dello Stato d’Israele hanno dato una legittimazione istituzionale alla politica degli insediamenti, considerando la colonizzazione come parte fondante dell’identità nazionale d’Israele. Fino ad oggi, la destra delle ruspe, aveva giustificato il muro in Cisgiordania, l’annessione di fatto di parte dei territori della West Bank, territori che due risoluzioni delle Nazioni Unite definiscono e considerano ‘occupati’, come un problema di sicurezza, di lotta al terrorismo palestinese. Insomma, provavano a dare al mondo di questa politica di occupazione, una versione difensiva. Ora non è più così. La legge voluta dalle destre altro non è che la ‘costituzionalizzazione’ del disegno di Eretz Israel, e nella Sacra Terra d’Israele chi non è Ebreo può essere al massimo tollerato, ma se scegliesse di andarsene nessuno si strapperebbe le vesti. Di una cosa, sono assolutamente convinto: una democrazia compiuta, solida, è quella che include e non emargina o addirittura cancella l’identità di un 20% della popolazione. Democrazia non è dittatura della maggioranza ma garanzia dei diritti delle minoranze. Minoranze che vanno riconosciute per ciò che sono, vale a dire comunità, e non come sommatoria di singoli cittadini”. Nell’operare questa distinzione – insistiamo – Lei tocca un nervo scoperto, che riguarda l’atteggiamento di quella parte dell’Israele sionista che pur criticando fortemente la legge in questione, sostiene che in discussione non è l’identità ebraica dello Stato ma la torsione fondamentalista data dalle destre. “Conosco queste posizioni – annota Odeh – posso comprenderne le motivazioni politiche e anche i presupposti culturali, ma non posso giustificarle. Perché l’orizzonte evocato da queste forze è quello della tolleranza. Certo, qualcuno potrebbe dire: meglio essere tollerati che venire considerati quinta colonna interna dei Palestinesi, collusi con i ‘terroristi’. Ma noi arabi israeliani non vogliamo essere tollerati, ma considerati cittadini ‘Israele a tutti gli effetti, né più né meno degli ebrei israeliani. E’ questa la sfida che lanciamo. Ma che fino ad oggi si è scontrata contro un muro di ostilità o d’incomprensione che, con l’esclusione del Meretz (sinistra laica e pacifista, ndr), ha visto tutte le forze d’ispirazione sionista, nelle diverse declinazioni, alla Knesset fare quadrato contro una proposta di legge che come parlamentari della Joint List avevamo presentato qualche settimana prima l’approvazione della legge su Israele, Stato-nazione ebraica. La proposta di legge che avevamo presentato in Parlamento era centrata su un principio, su un articolo fondamentale: lo Stato d’Israele è lo Stato degli Israeliani! Ebbene, con un voto a larga maggioranza, trasversale, che ha riguardato anche le forze di centro e i Laburisti, non solo non si è messa ai voti quella proposta ma addirittura si è impedita la discussione. Non c’era niente di estremista nella nostra proposta, nessun intento provocatorio. Non si parlava degli insediamenti né si faceva riferimento, anche indiretto, alla pace con i Palestinesi. Si affermava un principio che dovrebbe essere basilare in uno Stato democratico: una comune appartenenza di ogni suo cittadino, indipendentemente dalla sua appartenenza etnica o religiosa”.
E ancora: “Noi siamo, noi ci sentiamo arabi israeliani. E per questo continuiamo a batterci perché Israele sia lo Stato degli Israeliani. Ma nessuno può chiederci di chiudere gli occhi di fronte a ciò che avviene nei Territori occupati, ad una repressione che si fa sempre più brutale, all’istaurazione di fatto di un regime di apartheid. Le nostre critiche non sono diverse, e neanche più dure, di quelle che si leggono su Haaretz o che sono contenute in appelli di intellettuali israeliani, ebrei, o in documenti dell’Onu o delle più importanti organizzazioni umanitarie internazionali. Solo che se queste critiche le facciamo noi, noi arabi israeliani, scatta in automatico l’accusa di sempre: ‘ecco, vedete, di costoro non possiamo fidarci, sono il cavallo di Troia dei Palestinesi in Israele…’. E’ una critica preconcetta, strumentale. E’ da Israeliani che affermiamo che la pace è l’unica strada percorribile per diventare un Paese normale, totalmente integrato nel Medio Oriente. Da Israeliani diciamo che la sicurezza d’Israele e il diritto dei Palestinesi ad uno Stato indipendente sono le due facce di una stessa medaglia: quella di una pace giusta, e proprio perché tale, una pace durevole. Noi arabi israeliani rivendichiamo con orgoglio la nostra identità, conosciamo la Storia, ma non brandiamo identità e Storia come armi per creare divisioni nella società israeliana”.
Porre fine alla colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Riconoscere il diritto ad uno Stato indipendente a chi questo diritto è da sempre negato. Battersi contro il governo più a destra nella storia d’Israele, in cui , per citare il titolo di un editoriale di Haaretz, “i ministri fanno a gara per chi è più fascista”, significa anche questo. O almeno dovrebbe.
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