Consiglio d'Europa: di salvare i migranti non frega niente a nessuno
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Consiglio d'Europa: di salvare i migranti non frega niente a nessuno

Nel campo sovranista vale il principio che c’è sempre un sovranista più sovranista di te

Consiglio d'Europa: di salvare i migranti non frega niente a nessuno
Meloni, Orban e Morawiecki
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Luglio 2023 - 17.28


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Si potrebbe dire che chi di sovranismo ferisce etc…O usare la metafora del “fuoco amico”. O rimarcare che al momento della verità Giorgia è stata scaricata dagli amici di Visegrad. Tutto vero. Ma il flop registrato dalla presidente del Consiglio al vertice Ue sui migranti è qualcosa che vale per le polemiche interne. Certo, l’esito fallimentare del Consiglio europeo sta a dimostrare che nel campo sovranista vale il principio che c’è sempre un sovranista più sovranista di te. Gioco di metafore, anche calzanti, se non fosse che la sostanza di ciò che si è consumato a Bruxelles è molto più drammatico: in Europa di salvare i migranti in balia del mare  nel Mediterraneo, come sulla rotta balcanica o nelle attraversate del Sahel, non gliene frega niente a nessuno.

Globalist lo ha scritto e denunciato in innumerevoli articoli. Oggi ci fanno compagnia e conforto tre analisti con la schiena dritta.

Scrive Luca Pons su fanpage.it:  “Il Consiglio europeo del 29 e 30 giugno ha portato una risoluzione con posizioni comuni su vari temi, ma ha fatto notizia soprattutto l’argomento che è stato escluso: l’accordo comune sulla gestione dei migranti. Il Patto sulle migrazioni approvato dai ministri dell’Interno a inizio giugno, infatti, non ha trovato l’appoggio di Polonia e Ungheria.

Entrambi i Paesi si erano già opposti quando si era votato per l’approvazione, e al Consiglio hanno rifiutato che il tema venisse inserito nelle conclusioni finali, nonostante le mediazioni tentate da Giorgia Meloni. Non cambia nulla a livello di procedura, ma l’idea di trovare un’unità politica sul tema è saltata. E questo pesa anche sulle prossime elezioni europee, a giugno 2024, soprattutto per i piani della presidente del Consiglio italiana.

Il Patto sulle migrazioni non è saltato, ma la strada è in salita

I due leader di governo, Viktor Orban per l’Ungheria e Mateusz Morawiecki per la Polonia, sono contrari all’idea che ci sia una redistribuzione dei migranti (con una ‘sanzione’ da 20mila euro a persona per i Paesi che la rifiutano), oltre ad altri dettagli della misura. Soprattutto, sono convinti che tutte le decisioni sulle migrazioni andrebbero prese all’unanimità, come avvenuto in passato, anche se i regolamenti dell’Ue prevedono che basti la maggioranza.

Nella giornata di venerdì, Giorgia Meloni si è presa l’impegno di tentare una mediazione. D’altra parte, Meloni è stata da poco riconfermata come presidente del gruppo dei Conservatori europei, di cui fa parte Morawiecki, e storicamente è stata vicina all’area politica anche di Orban. Dopo il Consiglio ha dichiarato che “la questione che pongono polacchi e ungheresi non è peregrina”, e di aver tentato “una mediazione fino all’ultimo”, su cui si “continua a lavorare”. Mercoledì prossimo, la leader italiana sarà a Varsavia, per una visita di Stato già programmata.

Resta il fatto che oggi, leggendo le conclusioni del Consiglio, la parte relativa al Patto sui migranti non è inserita come una posizione dei 27 Stati membri, ma come una dichiarazione del presidente del Consiglio, Charles Michel. Per l’iter legislativo formalmente non cambia nulla: i ministri dell’Interno hanno approvato il Patto, e ora proseguiranno le trattative con il Parlamento europeo e la Commissione europea – nel cosiddetto Trilogo, che è già partito nelle scorse settimane – per arrivare a un testo definitivo.

Il tempo però stringe e, senza un’unità politica forte, sembra molto più complicato riuscire a raggiungere un accordo conclusivo che metta d’accordo tutti. A giugno 2024 si terranno le prossime elezioni europee, e sostanzialmente da dopo febbraio il Parlamento fermerà le sue attività – soprattutto su temi così “caldi” – per fare spazio alla campagna elettorale.

Cosa significa per le elezioni europee del 2024

La distanza tra la Polonia e il resto dell’Ue (Ungheria esclusa) non è una buona notizia per Giorgia Meloni. Essendo, come detto, la leader dei Conservatori europei (Ecr), Meloni non ha fatto mistero di quale sia il suo piano per le prossime elezioni europee: varare un’alleanza tra Ecr e Ppe (i Popolari, di cui fa parte anche Forza Italia, che esprimono ad esempio la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) per costruire una nuova maggioranza nel Parlamento europeo. Una maggioranza di centro-destra, come in Italia, che sostituisca lo storico accordo centrista tra il Ppe e i socialisti e democratici (S&D).

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È chiaro, però, che in una situazione simile l’accordo diventa più complicato. Se la mediazione ieri fosse riuscita, Meloni avrebbe potuto rivendicare il suo ruolo come ‘garante’ dei Conservatori. Una leader in grado di tenere a bada le istanze più radicali del suo gruppo e portarlo verso il centro, dove in Europa si prendono le decisioni più importanti.

Oggi i sondaggi suggeriscono che i numeri comunque non basterebbero, per escludere il S&D, e diversi popolari hanno guardato con scetticismo all’idea. Ora, con la Polonia che ha tenuto la linea dura sui migranti, il divario tra i due gruppi aumenta ancora. C’è poco meno di un anno di tempo per ricucire le distanze, se Meloni vuole provare a guadagnarsi un posto influente in Europa”, conclude Pons.

“Il nulla costruito sui morti”.

E’ il titolo illuminante de La Stampa di un articolo di straordinaria lucidità e coraggio civile di Luigi Manconi. “Il Consiglio europeo – scrive Manconi – si è concluso appena poche ore fa con un nulla di fatto in materia di immigrazione, che segue altri bilanci negativi, rinvii e differimenti, impegni mancati e promesse tradite, in un rosario estenuante di annunci e frustrazioni. Questa ennesima sconfitta dell’Europa è figlia, a sua volta, di una lunghissima sequenza di errori, che chiama in causa sia i governi che le opposizioni e – fatte le debite proporzioni – ciascuno di noi. 

Sono passati ormai 35 anni da quando scrissi, su questo giornale, allora diretto da Gaetano Scardocchia, uno dei miei primi articoli sull’immigrazione straniera in Italia. Per misurare l’incomparabile distanza che corre tra quel periodo e la fase attuale basti un dato. Nel 1991, gli stranieri presenti in Italia erano 649 mila (meno dell’1% del totale della popolazione); nel 2022 circa 5,2 milioni (ovvero l’8,7% del totale). In questi sette lustri, tutto è cambiato. E – temo di dover dire – in peggio. 

Dunque, se si volesse trarre un bilancio di questa fase della storia nazionale, relativamente alla politica migratoria, si dovrebbe parlare di fallimento. Nel 1990 la legge Martelli ampliò il diritto d’asilo e introdusse la prima politica dei flussi: attraverso decreti annuali si consentiva, per motivi di lavoro, l’ingresso legale. Contemporaneamente vennero emanate misure di repressione e di espulsione per gli stranieri irregolari. Intanto, si registravano i primi consistenti sbarchi di cittadini albanesi sulle nostre coste e, in molte città italiane (specie nel Nord), si manifestavano tensioni e conflitti tra residenti e nuovi arrivati. 

Nel 1998, fu la legge Turco-Napolitano a tentare di regolamentare l’intera materia, ma, pur positiva per molti aspetti, produsse una acuta lesione nel sistema delle garanzie, attraverso l’introduzione della categoria di “detenzione amministrativa”. Ovvero, la possibilità di sottoporre a reclusione un individuo senza preventiva autorizzazione del magistrato e senza la commissione di un reato. Una misura disposta dagli organi di polizia ai fini dell’espulsione e che, in genere, sanziona la mancata titolarità di documenti regolari da parte dello straniero. 

Allo scopo vennero creati dei centri di reclusione, prima chiamati Cpt (Centri di permanenza temporanea), poi Cie (Centri di identificazione ed espulsione), infine Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri). Un precedente drammatico, perché rappresentò l’introduzione di una eccezione giuridica ai danni di una categoria selezionata su base etnica. E perché quei centri conobbero un progressivo processo di degrado che incentivò la violazione dei diritti fondamentali della persona. In particolare, la diffusione dei Cie costituì l’inizio dello slittamento della questione dell’immigrazione da grande tematica sociale a problema di ordine pubblico. 

Fu anche l’occasione della mia prima cocente sconfitta parlamentare, quando il Ministro dell’interno Giorgio Napolitano pretese il voto unitario della maggioranza (della quale facevo parte) sull’intera normativa. Moltissimi anni dopo, lo stesso Napolitano, diventato Capo dello Stato, mi affidò un messaggio che Ricky Tognazzi lesse, nell’emozione generale, davanti alle persone trattenute nel CIE di Ponte Galeria, il primo gennaio del 2017. Una decina di anni fa visitai tutti i Cpr, uno per uno, arrivando a una conclusione: che queste carceri non carceri fossero, sotto ogni punto di vista, assai peggiori degli istituti di pena. 

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Un passo indietro. Il 28 marzo 1997, Venerdì Santo, la nave Katër i Radës, che trasportava profughi albanesi verso l’Italia, si inabissò nelle acque del canale di Otranto, in seguito alla collisione con la motovedetta italiana Sibilla. I morti furono oltre cento. La Sibilla partecipava a un’operazione di pattugliamento della Marina italiana ed eseguiva un ordine che l’allora ministro della Difesa, Beniamino Andreatta, sintetizzò così: «manovrare in modo da scoraggiare». 

Come affermò l’Alto Commissariato per i Rifugiati, l’operato della Marina italiana configurava un vero e proprio blocco navale, realizzato al di fuori delle acque territoriali, sia italiane sia albanesi. Il Governo di centrosinistra non volle assumersi la responsabilità di quella tragedia e sul porto di Brindisi, ad accogliere i profughi, si ritrovarono solo i rappresentanti della sinistra minoritaria e l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nel 2002 l’esecutivo di centrodestra approvò la legge Bossi-Fini, che si qualificava per il suo impianto tutto “economicistico”: lo straniero veniva considerato non come persona titolare di diritti e di doveri, bensì solo ed esclusivamente come forza lavoro. 

Il riferimento alla Bossi-Fini è fondamentale. Innanzitutto, perché la struttura di quella legge resiste da più di due decenni. E poi perché la sua ispirazione di fondo non ha conosciuto alcun cambiamento: l’essenziale finalità della nostra politica migratoria resta quella di contenere al minimo gli ingressi. È come se il sistema sociale ed economico italiano avesse stabilito, una volta per tutte, una soglia alla presenza di stranieri, superata la quale non si consentirebbero più ingressi per motivi di lavoro, né accoglienza per chi sbarchi sulle nostre coste. 

Nel 2008, poi, con il Governo di centrodestra, la condizione di irregolarità venne qualificata come reato e circostanza aggravante di ogni altro illecito penale (quest’ultima dichiarata incostituzionale dalla Consulta). La condizione soggettiva di migrante irregolare, così, è diventata penalmente rilevante, con una regressione a quel diritto penale d’autore e non del fatto che il costituzionalismo moderno aveva definitivamente superato. 

Questo mentre, per cause geopolitiche, aumentavano i flussi verso l’Europa e si verificavano i primi naufragi di massa. Il 3 ottobre del 2013, davanti a Lampedusa, morirono 360 migranti. Solo pochi giorni dopo vi fu quella che viene ricordata come “la strage dei bambini”. Da quelle centinaia di vittime due conseguenze. La prima appare oggi grottesca: in Parlamento ottenemmo, faticosamente, che il 3 ottobre venisse dichiarata Giornata nazionale della memoria delle vittime dell’immigrazione; e oggi sappiamo, ma è stato un peccato mortale non averlo previsto, quanto quella ricorrenza sia ridotta a frusta retorica. La seconda conseguenza è stata il varo della missione Mare Nostrum che, per un anno, ha funzionato egregiamente, salvando decine di migliaia di vite umane e, se posso dire, l’onore dei nostri mezzi di soccorso. 

Poi la missione venne annullata, sostanzialmente per ragioni di cassa. Ha inizio così il periodo più fosco delle stragi in mare, che ha visto l’intervento provvidenziale delle Ong del soccorso e la meschina battaglia ingaggiata contro di esse da parte di governi di più di un colore. 

Nel 2017, l’esecutivo di centrosinistra sottoscrisse il Memorandum con la Libia. I risultati positivi di questo accordo sono ancora tutti da dimostrare, mentre quelli negativi sono sotto i nostri occhi: un sostegno sostanziale a un regime frammentato e dispotico e l’autorizzazione al ricorso sistematico alla tortura e alla violazione dei diritti umani. Solo oggi – dopo sei anni -– il Pd denuncia quell’accordo. 

Ecco, ora forse si capirà, riandando indietro con la memoria e traendo un bilancio di questi ultimi decenni, quanto la tentazione di arrendersi – ovvero di accettare come ineluttabili le stragi di Cutro e di Pylos – possa essere irresistibile”.

Il Consiglio europeo di Bruxelles è stato teatro di uno scontro sui migranti che ha visto i leader di Polonia e Ungheria tenere in ostaggio per due giorni le discussioni del Summit, sostanzialmente solo per ragioni di propaganda interna ai loro Paesi. I due premier conservatori Mateusz Morawiecki e Viktor Orban, hanno battuto i pugni sul tavolo contro la riforma in corso di approvazione a Bruxelles sull’accoglienza dei richiedenti asilo, una riforma che sanno bene di non avere il potere di fermare. “Venticinque Paesi si sono mobilitati per sostenere il processo, mentre due hanno espresso la loro disapprovazione”, ha riassunto il presidente del Consiglio europeo Charles Michel al termine della riunione. L’opposizione di Varsavia e Budapest ha impedito l’adozione di conclusioni congiunte sul tema della migrazione, e ci si è dovuti accontentare delle “conclusioni del presidente” sul capitolo, una cosa che nel mondo reale non significa praticamente nulla, e che capiscono soltanto i nerd dell’Eurobolla”.

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Il teatro del nulla

Lo descrive così Alfredo Binchi su Today: “Quello che si è svolto a Bruxelles è stato solo un teatro, uno spettacolo, in quanto la riforma sulla “solidarietà obbligatoria” ha già ottenuto il via libera  a maggioranza qualificata in Consiglio Ue, come concesso dai trattati, e ora il testo verrà negoziato con Parlamento per la stesura finale. I tempi di approvazione non sono certi, ma quello che è sicuro è che alla fine si arriverà a un via libera. “Anche senza conclusioni, tutto quello” che è già in campo “va avanti”, ha tagliato corto il premier olandese Mark Rutte. Eppure a Bruxelles si è dovuto comunque mettere in atto lo psicodramma. Giorgia Meloni in mattinata ha tenuto un incontro con quelli che sono i suoi due alleati principali in Europa, Morawiecki e Orban appunto, mediazione più a favor di media che altro, e che si è conclusa con un prevedibilissimo nulla di fatto.

Ma quello che fa più specie è il fatto che questo inutile psicodramma sia avvenuto a pochi giorni da quella che è stata probabilmente la peggiore tragedie nel Mediterraneo di sempre, con oltre 600 migranti che sono morti nel Mediterraneo, tra cui ben 100 bambini, dopo che un peschereccio partito dalla Libia e diretto in Italia si è rovesciato in acque internazionali a circa 80 chilometri dalla Grecia. Nelle famose ‘conclusioni del presidente’riguardo alla tragedia c’è soltanto questo passaggio: “Il presidente ha registrato il profondo cordoglio espresso dal Consiglio europeo per la terribile perdita di vite umane a seguito della recente tragedia avvenuta nel Mediterraneo. Ha rilevato che l’Unione europea resta determinata a smantellare il modello di attività dei trafficanti e delle reti del traffico di migranti, strumentalizzazione compresa, e a contrastare le cause profonde della migrazione irregolare al fine di affrontare meglio i flussi di migranti ed evitare che le persone intraprendano viaggi così pericolosi”.

La parola “salvare” non viene menzionata manco di striscio, neanche nella forma di una semplice speranza collegata magari a un intervento divino. I migranti affogano e i leader europei pensano a “smantellare” le reti dei trafficanti, a “evitare che le persone intraprendano viaggi così pericolosi”, ma guai a parlare di aiutare chi rischia di affogare. La parola “salvare” è ormai del tutto bandita dal vocabolario comunitario ormai. Le missioni di ricerca e salvataggio comuni sono bandite da anni, perché costituirebbero un ‘pull factor’ un ‘fattore di attrazione’ che spingerebbe altri migranti a partire. E questo le importantissime “conclusioni del presidente” lo affermano chiaramente sottolineando che “le forme di solidarietà dovrebbero essere ritenute parimenti valide e non agire da potenziale fattore di attrazione per la migrazione irregolare”.

Da quando l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) ha lanciato il suo progetto sui migranti scomparsi nel 2014, si stima che 27mila persone che cercavano di raggiungere l’Europa siano morte o scomparse durante la traversata. Almeno 441 persone sono annegate solo tra gennaio e marzo di quest’anno, il trimestre più letale dal 2017. Altre 600 persone che hanno tentato la traversata in aprile e maggio sono morte o disperse, portando il totale di quest’anno ad almeno 1.039, e questo prima dell’ennesima strage in Grecia. Ma a Bruxelles  – conclude Bianchi – di questi disgraziati non sembra fregare niente a nessuno”.

E’ così.

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