Le veline di palazzo (Chigi), subito amplificate dai media mainstream, hanno tirato fuori milioni della Fao elargiti, grazie all’iniziativa italiana, per l’agricoltura d’Egitto. Come non bastasse, ecco spuntare i trattori intelligenti promessi al Cairo. Tutto per mascherare la verità scomoda. Quella del baratto. Lo sporco baratto: la grazia per Patrick Zaki in cambio della verità e giustizia per Giulio Regeni. Un prezzo impagabile.
Lo sporco baratto
Nessun baratto, nessuna trattativa sottobanco. Il governo è stato in grado di far tornare in Italia un giovane ricercatore che rischiava di stare ancora un po’ di tempo in carcere. Noi siamo riusciti a ottenere questo risultato. Poi si può dire ciò che si vuole. Siamo persone serie, non facciamo baratti di questo tipo”. Lo ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani a Radio 24 su un presunto baratto tra la liberazione di Patrick Zaki e il caso Regeni. Per quanto riguarda Regeni, ha aggiunto, “continueremo a chiedere che si faccia luce sulla vicenda come abbiamo sempre fatto, abbiamo messo sullo stesso piano le due questioni”.
L’Egitto: “La grazia a Zaki è un apprezzamento di al-Sisi per l’Italia”
“L’uso da parte del presidente (egiziano Abdel Fattah) al-Sisi della sua autorità costituzionale per concedere la grazia presidenziale è un apprezzamento (…) personale per la profondità e la forza delle relazioni italo-egiziane, e la rapidità della grazia ne è la migliore prova, in particolare poiché è avvenuto meno di 24 ore dopo l’emissione della sentenza definitiva”: lo ha dichiarato, in un messaggio all’Ansa, l’ambasciatore egiziano a Roma, Bassam Rady, riferendosi all’atto di clemenza del capo di Stato dell’Egitto nei confronti di Patrick Zaki.
I rettori italiani: ‘Bene la soluzione del caso, ora arrivino risposte su Regeni’
I rettori delle Università italiane “applaudono l’epilogo atteso da anni per Patrick Zaki” ma auspicano “risultati analoghi per il caso di Giulio Regeni, ancora in attesa di una risposta chiarificatrice”. La Conferenza dei rettoridelle università italiane sollecita anche una soluzione per il ricercatore dell’Università del Piemonte Orientale, Ahmadreza Djalali, trattenuto nel braccio della morte in Iran e accusato di spionaggio nonostante l’assenza di prove.
“La libertà di espressione è un diritto fondamentale che l’università non solo insegna – ha detto Salvatore Cuzzocrea, Presidente della Crui – ma costruisce un mattone alla volta nella pratica quotidiana del pensiero critico. La libertà di Patrick è in questo senso una vittoria di tutto quel movimento, pacifico e determinato, che per anni non ha mai smesso di lottare e sperare. Ovviamente, il
ringraziamento della comunità accademica tutta va anche alle istituzioni che hanno portato avanti le delicatissime interlocuzioni diplomatiche e alla missione in Egitto dei Ministri Bernini e Tajani che hanno permesso il concretizzarsi in questo risultato. Per l’università italiana oggi è un giorno felice”.
Scrive sul suo Blog su il fattoquotidiano.it, Erasmo Palazzotto, già deputato Pd e presidente della Commissione d’inchiesta Regeni: “La liberazione di Patrick Zaki non è frutto di una eccellente azione diplomatica, né di una capacità politica particolare del Governo italiano, ma il risultato di una straordinaria mobilitazione civile a difesa dei diritti umani nel nostro paese che ha fatto sì che il suo caso divenisse oggetto di tensione tra l’Italia e l’Egitto. Se non fosse stato per questa mobilitazione straordinaria il suo destino, come quello di migliaia di cittadini egiziani, non sarebbe stato dialcun interesse per il governo italiano, né tanto meno per quello egiziano.
Oggi è quindi un giorno di festa per tutti e tutte noi, non solo perché Patrick è di nuovo libero, ma anche perché la sua liberazione ci dà speranza che ogni azione a difesa dei diritti non sia sprecata, come spesso in questi anni bui abbiamo temuto. Abbiamo lottato per la sua libertà ma in realtà stavamo lottandoper la nostra, per la paura di finire in un futuro distopico in cui i diritti e le libertà di cui godiamo oggi lasciano il passo alla barbarie della dittatura.
Un mondo in cui la vita di un cittadino egiziano, ancor di più se appartenente alla minoranza copta, non vale nulla per il potere che la controlla. E invece siamo qui a sperare ancora, a coltivare l’idea di un futuro utopico in cui libertà e democrazia avanzano nel mondo unendo in primo luogo i popoli del Mediterraneo.
Viviano in un periodo di regressione democratica: se la fine del secolo scorso è stata caratterizzata da una espansione del modello democratico nel mondo, l’inizio di questo è stato segnato dalla cadutadi Stati democratici, colpi di Stato e, più in generale, anche in paesi dove non c’era democrazia, a un crollo della condizione materiale dei diritti delle persone. Per questo la notizia che uno di noi è stato liberato, uno di quelli che si batte per questi valori e che ha pagato con il carcere l’avere espresso liberamente le proprie idee, ci rende felici e ci restituisce un po’ di fiducia nelle nostre possibilità.
Ma c’è una cosa che non possiamo ignorare neanche in questo giorno di festa: la liberazione di Patrick non è il segnale di un cambiamento, di un miglioramento della condizione di vita dei cittadini egiziani, al contrario e stata usata dal regime di al-Sisi per lanciare un messaggio chiaro all’interno e all’esterno del Paese. Il messaggio molto chiaro è che della vita di un cittadino egiziano decide lui, che può decidere anche quando far finire un processo farsa perché è arrivato il momento di utilizzare quella vita come merce di scambio sul piano delle relazioni diplomatiche. Il gesto di magnanimità di al-Sisi altro non è che questo, un modo per dare un segnale a un governo italiano più disponibile di altri a barattare la propria dignità, la sua credibilità e il suo ruolo nel Mediterraneo.
È evidente che al-Sisi avesse in mente questo da molto tempo, che il ricatto a cui ci sottoponeva prevedeva la libertà di Zaki in cambio della giustizia su Regeni. Ha aspettato il momento giusto, ha costruito la giusta tensione con i continui rinvii del processo, fino a quando ieri, in vista della prossima visita di Giorgia Meloni in Egitto, ha fatto la sua mossa. Questo governo si è mosso in piena continuità sulla politica estera e in particolare sui rapporti con l’Egitto di quelli che l’hanno preceduto. Tutti hanno sostanzialmente lavorato alla normalizzazione dei rapporti diplomatici e commerciali in nome di un realismo politico che cancella il valore della vita umana in nome di “interessi nazionali” che finiscono sempre per confondersi con gli “interessi economici”.
Ma questo governo ha calato la maschera, è più spregiudicato, e ha avuto la strada spianata da quelli che l’hanno preceduto. Il caso Regeni è stato ormai derubricato a una questione solo giudiziaria, da parte del governo italiano non vi è più alcuna intenzione di condizionare le relazioni tra i nostri paesi in funzione della collaborazione del regime egiziano ad avere giustizia per l’omicidio di Giulio Regeni. Condonati anche i tentativi di depistaggio e la protezione dei responsabili del rapimento e delle torture non resta che farsene una ragione.
Ma noi no, una ragione non ce la faremo, continueremo a batterci per la giustizia, la democrazia, i diritti e la libertà di tutte e di tutti i Giulio Regeni e i Patrick Zaki del mondo e da oggi avremo la fortuna di farlo insieme a Patrick, che con il suo corpo e soprattutto con la sua voce non ha mai smesso di farlo”.
Do ut des
Così lo declina, efficacemente, Simone Cosimi su Wired: “Dopo il memorandum con il presidente tunisino Kais Saied spacciato come un “modello per costruire nuove relazioni con i vicini del Nordafrica” Giorgia Meloni potrà avere la tentazione di applicarlo immediatamente anche all’Egitto del presidente Abdel Fattah al Sisi, dittatore conclamato da anni di orrori. La sacrosanta grazia concessa dal presidente egiziano a Patrick Zaki, d’altronde di un reato inesistente – parliamo di alcuni post sui social – offre infatti la sponda alla premier e al leader egiziano per archiviare il lungo gelo seguito al rapimento, al pestaggio e alla morte del ricercatore Giulio Regeni. Una fase di tensioni e spinosi rapporti diplomatici durata quasi sette anni che ora sta per concludersi, con buona pace di tutto ciò che il regime del Cairo non ha fatto da quel 25 gennaio 2016.
Certo, dal governo – e in ultimo con le dichiarazioni del ministro degli esteri Antonio Tajani, “nessun baratto per la grazia a Zaki, su Regeni continueremo a chiedere la verità” – continuano a spiegare che “il dossier Regeni resta una priorità”, come riporta anche Repubblica. Ma il tempo passa, la memoria si indebolisce e al Sisi ha pensato di cogliere il momento giusto per cercare di rifarsi l’impresentabile immagine. Proprio come il collega tunisino Saied. Lo sta facendo mollando appena le briglie, visto che con Zaki ha graziato anche Mohamed al-Baqer, l’avvocato di Alaa Abdel Fattah, il più noto prigioniero politico egiziano. E tentando di dare l’idea che il Dialogo nazionale egiziano, un percorso di incontri fra esponenti della politica, della cultura e della società del paese lanciato a maggio, stia dando qualche reale frutto. In realtà il raggio d’azione di quel simposio che dovrebbe immaginare l’Egitto del futuro è in gran parte imbrigliato alle direttive del militare salito al potere con un colpo di Stato nel 2013.
Se dunque da mesi le relazioni sono riprese – verrebbe da dire con un lugubre gioco di parole – a pieno regime, e come con la Tunisia si intensificheranno in termini di contrasto ai flussi migratori e di sostegno alimentare, la tentazione del governo egiziano può essere quella di usare la grazia a Zaki, follemente condannato a tre anni, per dare un colpo di spugna sull’indagine e soprattutto sul processo italiano per la morte di Regeni. Non dobbiamo consentire che al Sisi utilizzi la vita di Zaki, che peraltro ha calpestato con un processo che, in un mondo giusto, non si sarebbe mai dovuto verificare, come merce di scambio per la morte di Regeni.
Il processo per la morte di Regeni, va ricordato, è stato bloccato un anno fa dalla Cassazione proprio perché non si conoscono i recapiti dei quattro agenti della National security, il servizio segreto civile egiziano, imputati per le torture e l’uccisione del 28enne. Le rogatorie internazionali sono rimaste per anni, e ancora fino a oggi, senza risposta. Quattro persone formalmente “irreperibili” in un impunito depistaggio di Stato che cavalca ovviamente a proprio vantaggio le garanzie processuali di un paese democratico. Di fatto, senza un intervento normativo che consenta di proseguire in contumacia e senza notifiche, è lo stesso governo italiano che ha scelto di seppellire quel dibattimento, rinunciando a un evidentemente a proprio avviso infruttuoso muro contro muro.
Gli striscioni appesi ai palazzi comunali italiani si contano ormai sulle dita di una mano, così come i braccialetti gialli ai polsi degli italiani. Il processo, come visto, non ha futuro. Formalmente il caso Regeni rimane nell’agenda della nostra politica nazionale, ma il governo italiano non deve consentire ad al Sisi alcun “baratto” diplomatico: Zaki torni in Italia ma su Regeni cali il silenzio. Occorre evitare che l’operazione si trasformi in uno spregevole do ut des sulla pelle di due giovani attivisti e ricercatori legati al nostro paese e delle loro famiglie. Uno lo abbiamo riportato nella sua nuova casa, per l’altro rischiamo di non avere più giustizia né verità”.
Verità per Giulio
“La grazia a Patrick Zaki è una bella notizia. In tante e tanti ci siamo mobilitati in questi anni per la sua libertà. Speriamo di riabbracciarlo presto e continueremo a lottare anche per le altre persone ingiustamente imprigionate e la piena verità e giustizia per Giulio Regeni”, dichiara la Segretaria del Pd, Elly Schlein.
“Quella di Patrick Zaki una notizia straordinaria. Ci rende felici e soddisfatti. Chiediamo al Governo di porre al regime egiziano il caso della morte di Giulio Regeni. Abbiamo la possibilità perché questo processo vada avanti. E non dimentichiamo che in Egitto ci sono migliaia di persone e arresti di massa. Oggi è un giorno per continuare a lottare per i diritti umani. ”, lle fa eco Riccardo Magi, capogruppo alla Camera di +Europa,
Il precedente francese
Di grande interesse è il report di Patrizia Caiffi per l’agenzia Dire: “Ho sentito spesso Patrick: stava organizzando il matrimonio, era concentrato sul suo futuro, ma era anche molto angosciato per l’udienza e l’ho rassicurato, ripetendogli che non sarebbero arrivati alla condanna. Ho sbagliato, ma ammetto che la sentenza – senza un reale capo d’accusa – mi ha lasciato senza parole: temo che la discussione pubblica della tesi di laurea dei giorni scorsi, e gli onori, ricevuti, abbiano spinto il regime a punirlo».
Non ha dubbi Ramy Shaath, prominente attivista egiziano-palestinese, intervistato all’indomani della condanna a tre anni per il ricercatore Patrick George Zaki. Rilasciato nel gennaio del 2022 dopo 900 giorni di carcere, Shaath ha una vicenda analoga a quella del ricercatore di Bologna: il carcere per attivismo politico e poi i legami con un paese europeo poiché sposato con una cittadina francese, che hanno permesso alla vicenda di ricevere forte eco.
Una questione su cui la Francia è riuscita a spuntarla, un Paese che però di contro ha mantenuto un fitto silenzio sulla morte del connazionale Eric Lang, avvenuta in una centrale di polizia egiziana nel 2013. Un’equazione che rafforzerebbe la tesi di alcuni analisti secondo cui Zaki verrebbe usato come «strumento di ricatto» dal Cairo per spingere l’Italia a rinunciare a «verità e giustizia» per Giulio Regeni, anche lui ritrovato morto in circostanze che hanno portato gli inquirenti a puntare il dito contro le forze di intelligence egiziane.
Sul fallimento dell’Italia, Shaath dichiara: «Bisogna chiedere conto al governo». A quello attuale a guida Meloni, che dopo la sentenza ha ribadito che «l’impegno per Zaki continua», ma anche a quelli precedenti, che come ricorda Shaath «dal 2016 non hanno posto fine né agli accordi miliardari per la vendita di armamenti né ai programmi di formazione ed esercitazione delle forze di polizia» accusate di violenze contro i civili. Con lo scoppio della guerra in Ucraina e la crisi energetica che ne è derivata le relazioni col Cairo «sono diventate ancora più strette».
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