Ha ragione Matteo Garrone "I migranti sono esseri umani, non numeri": le storie
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Ha ragione Matteo Garrone "I migranti sono esseri umani, non numeri": le storie

Ha ragione da vendere, e da filmare, Matteo Garrone, quando ricorda, fresco e meritato vincitore del Leone D'Argento per la migliore regia al Festival del cinema di Venezia con “Io capitano”, che “i migranti sono persone, non numeri”.

Ha ragione Matteo Garrone "I migranti sono esseri umani, non numeri": le storie
Una immagine tratta dal film Io Capitano di Matteo Garrone
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Settembre 2023 - 16.25


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Ha ragione da vendere, e da filmare, Matteo Garrone, quando ricorda, fresco e meritato vincitore del Leone D’Argento per la migliore regia al Festival del cinema di Venezia con “Io capitano”, che “i migranti sono persone, non numeri”.

Globalist ha fatto di questo assunto una linea editoriale, narrativa, con la preziosa guida di giornaliste/i, operatori in servizio nelle navi Ong, associazioni umanitarie, che queste storie di dolore e di speranza, di sofferenza e riscatto hanno tirato fuori dal conteggio numerico.

La storia di Mujah, torturato in Libia

Ilaria Romano in Tunisia ha raccolto, per openmigration.org,  la storia di Mujah, partito dal Sudan per tentare di raggiungere l’Europa. “La sua storia  – annota Romano – è quella di molte altre persone, le difficoltà e i pericoli del viaggio, le violenze e le torture in Libia. Ora vive in un edificio abbandonato in attesa di capire se riuscirà a partire.

Mujah vive a Medenine con una decina di altri ragazzi in un edificio abbandonato e mai finito, che probabilmente avrebbe ospitato un’attività commerciale dalle grandi vetrate, separate da colonne di cemento, e invece è diventato un dormitorio per i migranti che hanno attraversato da poco la frontiera con la Libia e percorso i primi chilometri in Tunisia. Ha solo un soffitto e tre pareti scrostate, quattro materassi logori per terra, qualche mattone per sedersi e scaldare un pasto di fortuna davanti al fuoco.

La città che lo ha “accolto”, poco più di 71 mila abitanti, si trova nel sud est della Tunisia, a circa un centinaio di chilometri dal confine di Ra’s Ajdir, sulla strada che i migranti percorrono dalla Libia verso Sfax, polo industriale del paese e principale snodo delle partenze via mare.

“Il mio nome significa grande leader, giudice imparziale, persona che riesce ad evitare i problemi – racconta Mujiah, che a 26 anni ne ha già persi due nelle maglie di un viaggio estenuante e interminabile – doveva essere di buon auspicio quando i miei genitori lo hanno scelto, e invece…”

Smette di parlare e comincia ad arrotolare i pantaloncini di jeans che ha addosso fin sulle cosce, scoprendo lentamente delle grandi cicatrici quadrate, tre sulla gamba sinistra e una sulla destra, dove la pelle si è fatta più scura e appare rugosa come un tessuto asciugato al sole.

“Questo è quello che mi hanno fatto perché non avevo soldi – continua a raccontare – sono rimasto prigioniero per 80 giorni, e quotidianamente sono stato picchiato e torturato.”

Dove ti hanno fatto questo?

In Libia, sono stato preso e messo in carcere, a Bani Walid. Non avevo fatto nulla, ma le persone che facevano la guardia nel centro di detenzione per migranti volevano dei soldi. Si fanno pagare per rilasciarti, il problema è quando non hai nulla da dare, allora cominciano le violenze. Dormivamo per terra, e tutte le mattine ci tiravano addosso delle secchiate d’acqua, poi ci avvicinavano dei cavi elettrici al corpo per darci la scossa. Ho i segni anche di questo. Minacciavano costantemente di uccidermi, mi puntavano la pistola alla testa e continuavano a dirmi che dovevo pagare, altrimenti sarei morto. Ma io non avevo nulla, e tantomeno la mia famiglia. Mi hanno anche scorticato le gambe con il coltello, più volte. E mozzato un dito del piede. Alla fine hanno capito che non avrebbero ricavato nulla da me e mi hanno buttato in mezzo alla strada, non so come ho fatto a restare vivo in quel momento.

Cosa è successo dopo? 

Ho cercato di sopravvivere, ho chiesto lavoro ovunque, anche se non riuscivo a camminare molto bene e le ferite facevano molto male perché si erano infettate. Ma in Libia ti fanno lavorare e poi è molto difficile riuscire a farsi pagare: se chiedi il tuo compenso, minacciano pure di ucciderti. Alla fine sono riuscito a tornare in Sudan, è stato quasi un anno fa. La più grande sconfitta della mia vita, per me e per la mia famiglia che aveva riposto in me tutte le speranze e i risparmi. Ma fisicamente non reggevo più.

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Oggi però sei in Tunisia: quando hai deciso di ripartire?

Ad aprile in Sudan è scoppiata la guerra, ero terrorizzato, la mia famiglia era già in gravissima difficoltà, ma con i combattimenti la situazione è peggiorata ancora. Si fatica a procurarsi il cibo, si esce di casa il meno possibile, si vive nel terrore. Ho sentito che non avevo scelta, dovevo riprovare a partire. Ho aspettato tre mesi, poi non ce l’ho fatta più a restare.

Com’è andato questo secondo viaggio fin qui?

Ho cercato di attraversare la Libia il più velocemente possibile. Ci ho messo tre giorni, ho pagato tutto quello che avevo per farmi portare nel deserto vicino alla frontiera, non potevo rischiare di essere di nuovo arrestato, questa volta non avrei retto. La prima volta non sapevo a cosa andavo incontro, anzi speravo che avrei trovato delle persone pronte ad aiutarmi, in fondo siamo figli di due terre vicine. Stavolta ho pensato che sarebbe stato meglio morire per strada che tornare in carcere a farmi torturare.

Da quanto sei arrivato in Tunisia?

Sono quindici giorni che sono qui, ho attraversato a piedi la frontiera, ho camminato per qualche decina di chilometri, sempre al calare del sole perché di giorno si rischia di morire disidratati, soprattutto se non si trova dell’acqua.

Cosa vorresti fare adesso?

Il mio obiettivo è trovare un lavoro per poter aiutare la mia famiglia, migliorare la mia vita, costruirmi un futuro decente. Cerco qualcuno che mi aiuti, sono solo, non ho nessuno, non ho nulla, dormo qui per terra, non ho alternative al momento. Non ho la possibilità di lavarmi, di mangiare regolarmente, di bere sempre acqua potabile. Qualche volta ci sono delle persone del posto che vengono a portarci qualcosa, ci aiutano come e quando possono. Se non viene nessuno vado a dormire con la fame.

Sei stato registrato dall’Unhcr all’ingresso in Tunisia?

Si, sono stato registrato, ma comunque non ho diritto a nulla. Mi hanno detto che siccome sono arrivato da solo per mia scelta non mi possono assistere. Ad altri danno i ticket per comprare da mangiare, a me hanno detto che non ne ho diritto, non sono responsabili per chi arriva da solo ed entra nel paese. E così non ho altra scelta che stare per strada. E aspettare.

Se avessi la possibilità di partire via mare verso l’Italia lo faresti?

Certo che si, partirei immediatamente. A cosa serve restare qui per terra? Lo so che rischio la vita, ma rimanere qui è come morire. Non ho altra scelta, non posso nemmeno tornare indietro per la seconda volta.

Sei in contatto con la tua famiglia in Sudan?

Purtroppo non più, sono giorni che ho perso qualunque contatto. I miei familiari hanno i telefoni fuori uso, avranno di nuovo tagliato le linee internet nella zona dove si trovano. Tempo fa si era già verificato questo problema, e anche la corrente elettrica va via per giorni, a volte settimane. La situazione nel mio paese è drammatica, e ora non so nemmeno se i miei genitori e i miei fratelli sono vivi o morti, non ho fatto in tempo a dirgli che, almeno per ora, in Tunisia sono salvo.

Le testimonianze di due minori stranieri non accompagnati raccolte dagli operatori dei centri di pronta accoglienza della Caritas di Roma.

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Ahmad e Samir, nomi di fantasia per proteggere la loro identità, sono due giovani provenienti dall’Africa Subsahariana che hanno recentemente trovato accoglienza in uno dei Centri di pronta accoglienza gestiti dalla Caritas di Roma. Il loro viaggio è iniziato oltre un anno e mezzo fa, un percorso lungo e segnato da esperienze traumatiche, soprattutto durante il loro soggiorno in Tunisia e la pericolosa traversata del mare per raggiungere l’Italia.

In Tunisia, hanno vissuto un’esperienza di prigionia, senza la possibilità di comunicare con le loro famiglie, costretti a condividere case sovraffollate e in pessime condizioni igieniche. Diversi video e foto documentano le violenze alle quali erano sottoposti, senza alcuna concreta motivazione. A volte avvenivano delle incursioni nell’abitazione con lanci di lacrimogeni, a cui seguivano bastonate molto violente su tutto il corpo. Vi è una foto in particolare in cui Samir ha il viso gonfio e sfigurato, con una ferita molto evidente sull’occhio destro. Questi episodi erano molto ricorrenti e i due ragazzi erano oggetto di continue aggressioni verbali e torture fisiche.

Ahmad aveva già sperimentato una situazione simile nel suo Paese d’origine, il Mali, a causa della guerra. Questo lo aveva spinto a cercare asilo in cerca di un futuro migliore e ritrovarsi nuovamente in una situazione così difficile lo aveva messo a dura prova, con la paura di non riuscire più a liberarsi da questa condizione.

In quei momenti, l’unica fonte di forza per i due ragazzi è stato il sostegno reciproco. Ahmad e Samir hanno compiuto diversi tentativi per scappare dalla Tunisia e potersi mettere in salvo. Durante il viaggio in barca hanno rischiato la vita e assistito alla morte di amici e di molte altre persone. La prima volta uno dei due è stato respinto e costretto a rientrare in Tunisia, riuscendo a raggiungere l’Italia solo al secondo tentativo.

Il loro viaggio è giunto a termine nel luglio 2023, quando sono arrivati a Lampedusa. Inizialmente, sono stati ospitati in un hotspot e successivamente, su disposizione della Prefettura, sono stati trasferiti a bordo di un pullman direttamente presso il servizio Caritas. Non era mai accaduto che arrivassero minori direttamente dalle zone di frontiera e questo fa immaginare i livelli di emergenzialità legati al cospicuo arrivo di migranti in Italia e alla saturazione dei posti disponibili in Sicilia e nelle aree circostanti.

Attualmente, entrambi i ragazzi riportano ancora dolori fisici e disagio, motivi per cui sono stati sottoposti a controlli medici per escludere fratture o lesioni. Soffrono di ricordi intrusivi e incubi ricorrenti e manifestano il desiderio di distrarsi il più possibile per evitare di ripensare alle loro esperienze. Vi è una certa difficoltà a integrarsi con i loro coetanei. Entrambi preferiscono stare da soli e prendersi del tempo per elaborare gli eventi vissuti.

Salvati dalla Life Support

Testimonianze raccolte dagli operatori in servizio sulla Life Support, la nave di Emergency impegnata nel Mediterraneo.

“Alcune volte, mentre eravamo in Libia, ho pensato di tornare indietro. Vivevamo in condizioni igieniche pessime, soprattutto per un bambino così piccolo, che ha bisogno di attenzioni continue. Ma l’unica possibilità che avevamo per dargli una vita migliore era dall’altra parte del mare”.

Mentre ci racconta la sua storia sul ponte della Life Support, N. abbraccia il figlio. Ha solo 7 mesi.

“Per partire”, dice “abbiamo dovuto vendere la casa di famiglia. Solo mio marito è rimasto in Siria, a prendersi cura dei suoi genitori. Sono anziani e non possono muoversi”.

Ora, raggiunta la terraferma, spera di riuscire ad arrivare in Germania, “ho un fratello che vive lì da diversi anni”.

Per dare a suo figlio un futuro migliore, lontano dalla guerra.

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N. ha 24 anni | soccorsa ad agosto 2023 insieme al figlio di 7 mesi

Ho ancora tante cicatrici sul corpo”

“In Libia non ci sono diritti per i migranti, possono ucciderti per strada e a nessuno importa. Ma anche in Tunisia c’è molto razzismo contro i neri. A Sfax attaccano spesso noi africani subsahariani. Vengono nelle case in cui viviamo, ci rubano i soldi, i telefoni, ci picchiano anche per ore se non abbiamo soldi. Ho ancora tante cicatrici sul corpo”.

C. è fuggito dalla Sierra Leone, “dove molti membri della mia famiglia sono stati uccisi perché considerati oppositori politici” ci ha raccontato.

“Sono dovuto scappare in Marocco, ho passato mesi nel deserto, quando sono arrivato in Libia ho visto uccidere diversi miei compagni di viaggio”.

C. ha 24 anni | soccorso a luglio 2023

“Che modo di vivere è questo?”

 “Ho lasciato la Sierra Leone perché sono omosessuale.
La mia famiglia mi ha ripudiato, non ero accettato, dovevo vivere nella segretezza, non sapevo cosa fare della mia vita.
Non potevo vivere con la mia identità in Sierra Leone: dovevo far finta di essere qualcun altro.
Che modo di vivere è questo?
Tanto valeva partire per provare a raggiungere l’Europa. Anche a costo di rischiare la morte”.

M., 25 anni, dalla Sierra Leone | soccorso a luglio 2023

 “Succede a moltissime donne”

“Sono fuggita da sola dal mio Paese, il Camerun. Sono fuggita da violenze e abusi, lasciando famiglia e amici”. L. ha 28 anni ed è una delle persone che abbiamo soccorso nell’ultima missione della Life Support. 

“Sono arrivata in Tunisia passando per il deserto dell’Algeria. Durante il viaggio sono stata violentata dagli uomini che avevo pagato per portarmi in Tunisia. Succede a moltissime donne. 

In Tunisia ho raccolto i soldi per il viaggio in mare. In quei mesi non ho mai potuto andare da un dottore perché ero senza documenti”.  

Solo una volta salita sulla Life Support, al sicuro, L. ha potuto fare un test di gravidanza. “In quel momento ho scoperto di essere incinta, di tre mesi”.

L.,28 anni, dal Camerun | soccorsa a luglio 2023

 “In Tunisia la situazione è drammatica. A Sfax i migranti subsahariani come me vengono trattati in modo ignobile, non ci vendono cibo o acqua, non ci affittano case, ci rubano i soldi e gli oggetti, ci picchiano”.

“11 miei amici sono stati uccisi, prima che io partissi, perché accusati senza fondamento di aver rubato. Per questo me ne sono andato: non c’era possibilità di vivere lì per me”.

Dopo aver passato un anno e mezzo in Libia, dove – racconta – “mangiavo e bevevo poco, ero tenuto prigioniero e non potevo uscire di casa”, Y. è fuggito in Tunisia. Lì ha trovato di nuovo discriminazioni, violenze, mancanza di rispetto dei più basilari diritti.

“Oggi sono felice per la mia vita, perché sono vivo, ma non è stato facile sai?”.

Y., 27 anni, dal Camerun | soccorso a luglio 2023

 “In Libia non c’è pace”

“In Libia non c’è pace. Ci entravano in casa con le pistole, cercando soldi e oggetti di valore da rubare. 
Volevamo mettere in salvo nostro figlio da quell’inferno, ma non avevamo abbastanza soldi per partire tutti e tre. Così, il mio compagno si è sacrificato. 
Nostro figlio deve poter studiare, non vivere in un Paese dove la gente viene uccisa per strada. 
Ora ho paura che non riesca più a rivedere suo padre”. 
 
G., 22 anni, dall’Eritrea | soccorsa con suo figlio di 2 anni a giugno 2023

Esseri umani, non numeri. Globalist non si stancherà mai di affermarlo. Scrivendone.

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