Dal blocco navale europeo alla guerra planetaria contro i trafficanti esseri umani. Il tutto condito col solito “Piano Mattei” e un sostegno non caritatevole all’Africa tanto per solleticare i buoni sentimenti.
Niente di nuovo sotto il cielo di New York. E dalla tribuna dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. L’intervento di Giorgia Meloni, quando in Italia erano le ore piccole della notte, non è certo di quelli che passeranno alla storia. E neanche alla cronaca diplomatica. Lo si resoconta perché non se ne può fare a meno.
La solita minestra riscaldata
“Davvero possiamo dire che sia solidarietà accogliere in via prioritaria non chi ne ha davvero più bisogno ma piuttosto chi ha i soldi per pagare questi trafficanti, e consentire ai trafficanti di stabilire chi abbia diritto a salvarsi? Sono convinta che sia dovere di questa organizzazione rifiutare ogni ipocrisia e dichiarare una guerra globale e senza sconti ai trafficanti di esseri umani”, ha detto Meloni. Una guerra globale che ricorda la caccia agli scafisti “in tutto il globo terracqueo”, annunciata alcuni mesi fa dopo la strage di Cutro e poi non concretizzata.
Per Giorgia Meloni sull’immigrazione c’è una strategia della sinistra contro il governo
Meloni ha insistito sui trafficanti che “lucrano sulla disperazione”, che “illudono che affidandosi a loro chi vuole migrare troverà una vita migliore, si fanno pagare migliaia di dollari per viaggi verso l’Europa che vendono con le brochure come fossero normali agenzie di viaggio, ma su quelle brochure non scrivono che quei viaggi troppo spesso conducono alla morte, a una tomba sul fondo del mar Mediterraneo”. Poi ha criticato un “certo approccio ipocrita in tema di immigrazione”, che “ha fatto arricchire a dismisura questa gente. Noi vogliamo combattere la mafia in tutte le sue forme, e combatteremo anche questa”.
Il Piano Mattei e il sostegno all’Africa
La presidente del Consiglio è poi tornata ancora una volta a elogiare il Piano Mattei che il suo governo vorrebbe mettere in piedi: “L’attenzione dell’Italia è rivolta particolarmente verso l’Africa, dove nazioni già provate già provate dai lunghi periodi di siccità e dalle conseguenze dei cambiamenti climatici si trovano oggi di fronte a una situazione difficilissima anche in termini di sicurezza alimentare, che le espone ancora di più all’instabilità, e le rende facili prede del terrorismo e del fondamentalismo”.
L’Africa “non è un continente povero, è ricco di risorse strategiche, ma spesso è stato ed è un continente sfruttato”. Ora “l’Italia vuole contribuire a creare un modello di cooperazione capace di collaborare con le nazioni africane. Perché l’Africa non ha bisogno di carità, ma di essere messa in condizione di competere ad armi pari”.
Il Piano Mattei ha avuto il suo primo passo “con il Processo di Roma, avviato a luglio con la Conferenza su Migrazioni e Sviluppo”, la quale ha coinvolto “le nazioni mediterranee e diverse nazioni africane su un processo che si snoda lungo due direttrici fondamentali: sconfiggere gli schiavisti del terzo millennio da un lato, e affrontare le cause alla base della migrazione dall’altro, con l’obiettivo di garantire il primo dei diritti, che è il diritto a non dover emigrare”.
Ci fermiamo qui, tanto è chiaro. Chiacchiere e distintivo.
Narrazione e realtà
Scrive Alessandro Madron su Il Fatto Quotidiano: ““Ciò che sembrava impossibile fino all’altro ieri diventa realtà. Un clamoroso, storico successo epocale. Grazie all’impegno del presidente Meloni l’Europa ha siglato lo storico Memorandum con la Tunisia”. Anzi, di più: “Il documento di intesa con la Tunisia è stato un successo importante proprio anche personale del Presidente Meloni”. E, ancora: “Grazie al Governo Meloni abbiamo evitato che gli sbarchi fossero anche di più. Finalmente sono incrementati i rimpatri. Solo in Tunisia sono incrementate del quasi 200% le persone fermate”. Sono le parole di entusiasmo espresse tra luglio e agosto da Andrea Delmastro Delle Vedove, Lucio Malan e Giovanni Donzelli, per sottolineare la soddisfazione per l’accordo siglato dall’Europa con la Tunisia, un accordo fortemente voluto da Giorgia Meloni. A loro hanno fatto eco anche altri esponenti di maggioranza come Tommaso Foti o il ministro Antonio Tajani. Tutti concordi nell’intestarsi risultati clamorosi sul fronte del contrasto all’immigrazione clandestina. Dopo l’entusiasmo le settimane passano, ma gli accordi con la Tunisia non sembrano dare i frutti sperati, anzi, ogni giorno vede aumentare il numero degli arrivi, tanto che a fine agosto il sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri Alfredo Mantovano, a fronte di un numero di sbarchi in costante aumento, è costretto ad ammettere che “i numeri sui migranti sono oggettivamente preoccupanti”. Ma ancora in quell’occasione il governo vede del buono: “La dinamica degli arrivi stessi è in calo. Ha conosciuto un picco a maggio e poi un abbassamento. A maggio – dice ancora Mantovano – registrava un più 1008% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e oggi (28 agosto, ndr) si attesta su un più 386%”. Ma dal successo epocale al bagno di realtà manca poco. E’ la stessa premier Meloni il 15 settembre a doverne prendere atto: da Lampedusa arrivano immagini di barchini in coda per entrare, senza più nemmeno l’accenno di una gestione. L’hotspot dell’isola si riempie e arriva a “ospitare” migliaia di persone, strette sotto il sole. La premier allora interviene in video e annuncia la stretta che sarà varata in Cdm 3 giorni più tardi. Del “successo epocale” è rimasto solo l’annuncio”.
Lampedusa abbiamo ceduto al ricatto
A darne conto, in una documentata analisi su La Stampa, è Giorgia Linardi, combattiva portavoce della Ong Sea Watch in Italia.
“Uno dei punti del decalogo enunciato dalla commissaria europea Von der Leyen a conclusione della visita-lampo di domenica riguarda lo sblocco dei fondi promessi nell’Intesa Ue-Tunisia per la lotta al traffico di migranti. Eppure, dal 2011 sono aperte linee di credito europee e italiane che non hanno portato ai risultati auspicati: 178 milioni dal fondo fiduciario Ue per l’Africa e 47 milioni dall’Italia.
La pressione per lo sblocco dei fondi legati la Memorandum è altissima dato che, proprio nelle ore in cui aveva luogo la prima discussione democratica in Parlamento Ue la scorsa settimana, a Lampedusa arrivava un numero record di persone dalla Tunisia, dove sono in corso sgomberi verso le zone costiere. Complice un’economia parallela sviluppatasi nelle aree rurali intorno a Sfax, in cui la differenza tra trafficanti, «passeurs» e civili si assottiglia sempre di più, a fronte di un tessuto economico che non offre nulla alla popolazione.
Il tasso di disoccupazione sfiora il 20% e sale al 40% tra i giovani, i salari – già bassissimi – valgono il 30% in meno del 2011, l’inflazione supera il 10% (il tasso più alto degli ultimi 30 anni), in un Paese che si regge in solida parte sull’economia informale, spesso tradotta in sfruttamento, e sull’oligopolio intoccabile di una manciata di uomini d’affari che decidono letteralmente della disponibilità di prodotti di prima necessità sul mercato. Il 90% dei giovani tunisini cresce con il progetto migratorio in testa: chi può cerca – spesso invano – di ottenere un visto, e chi no, resta come può o prende il mare.
E proprio in mare sono numerose le testimonianze di violenze delle autorità tunisine contro i migranti subsahariani che Von der Leyen e Meloni vogliono continuare a foraggiare: bastonate, colpi d’arma da fuoco, insulti e sputi, speronamenti che in alcuni casi hanno causato il rovesciamento dei barchini e l’annegamento delle persone a bordo, richiesta di denaro in cambio di soccorso dopo aver depredato la barca del motore, percosse e arresti arbitrari a seguito del respingimento a terra. «Maledetti immigrati! Volete rovinare la Tunisia dicendo che non è sicura!» così si è sentito gridare S., giovane sierraleonese, mentre veniva torturato nella stazione di polizia di Lac, il quartiere finanziato dagli emirati in cui hanno sede le ambasciate e principali organizzazioni internazionali, incluse le agenzie Onu. E proprio davanti all’Unhcr S. si era accampato in cerca di protezione – dopo aver perso la casa a seguito del discorso xenofobo di Saied – ma è stato arbitrariamente arrestato durante il violento sgombero di aprile. Quarantacinque infiniti minuti di botte, scosse elettriche e insulti, conclusi con il trasferimento nella prigione di Mornaguia. Il Forum Tunisino per i Diritti Umani ha contato 3500 arresti di migranti tra gennaio e maggio, numero ulteriormente cresciuto con l’escalation di violenze, pogrom razzisti e deportazioni nel deserto di oltre 1200 persone a luglio.
A Mornaguia, si trovano anche molti tunisini vittima di arresti arbitrari legati alla negazione dei diritti fondamentali in corso nel Paese. Esponenti di associazioni Lgbtqi+, persone arrestate poiché l’omosessualità è criminalizzata dal codice penale. Oppositori politici rastrellati dopo l’assunzione dei pieni poteri il 25 luglio 2021, quando, a seguito del colpo di stato, la popolazione aveva sperato in una radicale riforma del Parlamento corrotto di allora, e si è vista invece riscrivere la Costituzione, dando pieni poteri a un presidente-autarca che ha destituito e indagato per corruzione e terrorismo 57 giudici in un giorno. «Saied ha sovvertito il processo democratico per instaurarne un altro di negazione delle libertà» racconta un esponente dell’Associazione dei Magistrati tunisini.
Anche la libertà d’espressione e di associazione sono fortemente minacciate. Secondo il Sindacato dei giornalisti tunisini, 36 reporter sono indagati e due in prigione, soggetti a processi d’opinione mentre la normativa vigente viene utilizzata per censurare l’informazione pubblica. In un contesto di altissima repressione, violenza poliziesca e arresti arbitrari, la società civile tunisina avverte: più securitizzazione per contenere i migranti significa più potere all’apparato repressivo. L’approccio Meloni-Von der Leyen, dunque, si abbatte non solo sulle persone in fuga, ma anche sulla popolazione tunisina intrappolata in un Paese che ha sempre più l’aspetto di una dittatura. Italia e Ue non possono sottrarsi al monitoraggio dello stato di diritto nei Paesi terzi con cui stringono relazioni: il rischio concreto è che l’influenza esterna alimenti la crisi della democrazia in Tunisia”.
A Lampedusa, l’Europa è alle prese con un nuovo test di coerenza e solidità.
Annota su Internazionale Pierre Haski, direttore di France Inter: “Negli ultimi anni il vecchio continente ha saputo affrontare le sfide del covid-19 e dell’invasione russa dell’Ucraina, ma ora il banco di prova è una piccola isola italiana di appena venti chilometri quadrati.
La scorsa settimana, a Lampedusa, sono sbarcati più migranti di quanti siano i residenti: circa 8.500 persone, arrivate soprattutto dalla Tunisia a bordo di duecento imbarcazioni. Per l’isola sono numeri grandi, ma è sempre il caso di contestualizzare quando sentiamo pronunciare la parola “invasione”. Siamo molto lontani dalle cifre del 2015, quando più di un milione di migranti arrivò in Europa, principalmente dalla Siria.
La vicenda è di carattere umanitario ma anche politico. Gli sbarchi rappresentano per prima cosa una sfida per la linea dura imposta da Giorgia Meloni e dalla coalizione di estrema destra al potere in Italia. Inoltre, si prestano a vari tentativi di strumentalizzazione politica in vista delle elezioni europee del giugno 2024, per non parlare degli effetti sulla già traballante strategia migratoria dell’Unione europea e sull’accordo siglato a giugno.
Il feticcio dell’estrema destra
La questione dei migranti è il tema-feticcio dell’estrema destra europea. In Francia, nel fine settimana, l’ex candidato di estrema destra Éric Zemmour si è opposto all’idea che anche un solo migrante arrivato a Lampedusa sia accolto in Francia, mentre Marine Le Pen ha partecipato a Pontida alla festa dei suoi amici della Lega, il partito guidato dal ministro delle infrastrutture Matteo Salvini.
Eppure gli esponenti dell’estrema destra europea faticano a trovare una linea unica sul tema. Meloni ha chiesto la solidarietà dell’Europa, ma fino a pochi giorni fa si trovava a Budapest, in Ungheria, per fare visita al suo alleato Viktor Orbán, che si rifiuta di aprire le porte del paese ai migranti. Nel frattempo i rapporti tra la presidente del consiglio italiana e il suo alleato Salvini non sono più quelli di un tempo. Queste tensioni complicano il progetto della costituzione di un gruppo unico di estrema destra dopo le prossime elezioni europee (al momento ne esistono tre).
Il 17 settembre la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen era a Lampedusa con Meloni per riaffermare la solidarietà dell’Europa all’Italia. È stato un gesto necessario, perché da giorni ci sono dei contrasti.
I paesi membri sono teoricamente legati da un accordo di ripartizione dei migranti arrivati in un paese di primo ingresso, ma l’applicazione di questo principio non è mai facile. Il 13 settembre, per esempio, la Germania ha annunciato che non avrebbe applicato l’accordo a causa di alcune divergenze con l’Italia. Due giorni dopo, però, Berlino ha fatto marcia indietro, dichiarando che accoglierà più di duemila persone in arrivo da Lampedusa.
Ma il problema è ancora più profondo di quanto sembri. Diciamoci la verità, nessuno possiede una soluzione miracolosa, e di sicuro non ce l’hanno tutti quelli che rilasciano dichiarazioni agguerrite. Giorgia Meloni lo ha vissuto sulla sua pelle. Di recente la presidente del consiglio è volata in Tunisia per firmare un accordo con cui l’Italia intende nei fatti appaltare la gestione dei flussi migratori a Tunisi, ma tutte le imbarcazioni arrivate a Lampedusa negli ultimi giorni erano partite proprio dalla Tunisia.
Tra la strumentalizzazione politica, il volontarismo vuoto e le false soluzioni, la questione migratoria è da decenni un tema tanto esplosivo quanto ricorrente. La speranza è che quanto meno l’Europa si dimostri fedele ai valori che difende nei propri discorsi, ricordando che, contrariamente a quanto si creda, la maggior parte dei profughi del mondo non si trova in Europa, ma in Africa, in Medio Oriente e in Asia”.
Sì, aggiungiamo come chiosa finale, dovremmo ricordarcene sempre. Anche quando la presidente del Consiglio, in rappresentanza dell’Italia, prende la parola all’Onu.
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