Non c’è vertice Nato o Ue che l’abbia all’ordine del giorno. Una entità statuale cesserà di esistere, c’è già la data, ma la comunità internazionale se ne sbatte altamente. E chi non lo fa, come il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, plaude all’alleato azero.
Da un report dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica intenazionale). “Il Nagorno-Karabakh cesserà di esistere, come entità statuale, a partire dal 1° gennaio 2024. Lo ha stabilito un decreto che il presidente della autoproclamata Repubblica dell’Artsak si è visto costretto a firmare in seguito alla sconfitta da parte del’Azerbaigian.
Samvel Shahramanyan ha sottoscritto lo scioglimento di tutte le istituzioni e organizzazioni della Repubblica – non riconosciuta a livello internazionale – in conflitto con Baku per più di trent’anni e nel corso di due guerre, tra il 1988 e il 1994 e nell’autunno del 2020. Ma a decretare la fine del sogno indipendentista è stato ol blitzkrieg azero di due settimane fa, che ha costretto i combattenti separatisti a capitolare in seguito al mancato intervento armato dell’Armenia, che ha sostenuto il territorio per decenni, e senza che le forze di pace russe schierate sul territorio dal 2020 intervenissero. Da allora decine di migliaia di residenti della regione – formalmente parte del territorio azero ma abitata da popolazioni di etnia armena – sono fuggite in Armenia attraverso il corridoio di Lachin, riaperto da Baku dopo mesi di blocco. Secondo le autorità armene, più di 75mila profughi – su una popolazione di 120mila persone, sono già arrivati nel paese. L’Armenia finora è riuscita a offrire meno di 3mila alloggi e si rischia una crisi umanitaria.
Esodo o pulizia etnica?
Molti di coloro che lasciano le loro case lo fanno nel timore di persecuzioni da parte dell’Azerbaigian, preoccupazioni aumentate dopo l’arresto di diversi funzionari di alto profilo del Karabakh come Ruben Yardanyan, come ex ministro della repubblica dell’Artsakh arrestato mentre cercava di attraversare il confine con l’Armenia. Da allora Vardanyan è stato portato a Baku e accusato di finanziamento al terrorismo e altri crimini. Altri, come David Babayan, un politico locale e consigliere del presidente Shahramanyan, hanno annunciato che intendono consegnarsi spontaneamente, per evitare ritorsioni sui civili. Il premier armeno Nikol Pashinyan ha avvertito che di questo passo nella regione non rimarrà nessun armeno, definendo l’esodo una “pulizia etnica” e chiedendo “azioni internazionali” contro l’Azerbaigian. Pashinyan ha detto che il suo governo “accoglierà “le sorelle e fratelli del Nagorno-Karabakh con tutta la cura necessaria”. Ma non è chiaro quanto sia preparata l’Armenia – un paese di circa 2,8 milioni di persone – ad ospitare fino a 120mila profughi, molti dei quali in condizioni di grave malnutrizione dopo essere stati sottoposti ad un embargo durato quasi un anno.
Cresce il malcontento a Erevan?
Di tutt’altro avviso sembrano essere le autorità azere che hanno invitato gli armeni del Nagorno-Karabakh a restare ed entrare a far parte di un “Azerbaigian multietnico”. In realtà però Baku ha posto gli armeni davanti a una scelta chiara: restare e accettare la cittadinanza azera, oppure andarsene. “Viene detto loro di integrarsi in un paese di cui non hanno mai fatto parte, e la maggior parte di loro non parla nemmeno la lingua e gli viene detto di smantellare le proprie istituzioni locali – osserva Thomas de Waal,
del think tank Carnegie Europe - Questa è un’offerta che la maggior parte delle persone non accetterà”. Intanto in Armenia cresce il malcontento e nei giorni scorsi la capitale è stata scossa da una serie di manifestazioni contro il premier Pashinyan, accusato della disfatta del Nagorno-Karabakh e di passività nei confronti dell’Azerbaigian. Anche la Russia, principale sostenitore militare dell’Armenia, è stata fortemente critica nei confronti di Pashinyan, accusato di un “approccio irresponsabile” e di “soccombere all’influenza occidentale”. Negli ultimi mesi il premier armeno si è progressivamente allontanato dalla Russia per avvicinarsi all’Occidente e agli Stati Uniti, con evidente irritazione da parte di Mosca.
Dov’è l’Europa?
Dopo decenni di guerre intermittenti e fragili cessate il fuoco, la rapidità con cui il Nagorno-Karabakh è caduto in mano alle truppe azere – e con cui la popolazione armena sta evacuando il territorio – ha colto tutti di sorpresa. Ma dopo un momento iniziale di smarrimento ci si aspettava una reazione da parte europea che non è arrivata. Il silenzio europeo sul Nagorno-Karabakh “è un doloroso fallimento diplomatico per l’Ue – osserva il quotidiano Politico – che aveva scommesso un significativo capitale politico nel tentativo di presentarsi come pacificatore”. La presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, che aveva descritto il presidente azero Ilham Aliyev come uno dei partner europei più “affidabili e degni di fiducia”, non ha commentato gli eventi. Mentre il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si è limitato a chiedere che gli armeni del Karabakh vengano “trattati bene”. Dichiarazioni di principio a parte non sembra esserci alcuna volontà da parte europea – nonostante una richiesta in tal senso espressa da più di 60 eurodeputati -di colpire Baku con sanzioni. Il perché è materia di realpolitik: dopo aver rinunciato a quello russo, i 27 non vogliono rischiare di compromettere le relazioni con un paese ritenuto un partner cruciale per la fornitura di gas naturale.
Moltissimi sono i proverbi che la saggezza popolare ha inventato per descrivere situazioni estreme (e terribili) come quella in cui si trova oggi la popolazione del piccolo ma importantissimo territorio di montagna chiamato Nagorno-Karabakh (Artsakh per gli abitanti, montanari armeni del Caucaso, essendo l’altro nome per loro una memoria costante di dominazioni straniere)”.
Chiamatelo col suo vero nome: genocidio
Così la scrittrice Antonia Arslan su La Stampa: “ Ma quello che più trovo adatto al momento attuale, nella sua essenzialità atmosferica, è molto semplice: «Tanto tuonò che piovve». Dopo la guerra perduta dell’autunno 2020, con un territorio ridotto e minacciato da ogni parte, ci sono stati i tuoni delle ripetute e sempre più accentuate minacce da parte azera: sia verbali, grondanti odio e volontà di annientamento, che fisiche, con progressivi sconfinamenti, rosicchiamenti di chilometri e chilometri di territorio (ora in un punto ora nell’altro del contestato confine), qualche bomba e qualche vittima, contadini a cui è impedito coltivare i loro poveri campi, di vendemmiare le loro uve prelibate, esercitando una pressione psicologica e fisica sempre crescente.
Ma dopo i tuoni, ecco la pioggia: il blocco dal dicembre 2022 del purtroppo famoso corridoio di Lachin (l’unica strada che collega oggi l’Artsakh all’Armenia e al resto del mondo) che nello stillicidio di ben otto mesi di durata ha prostrato le forze dei circa 120.000 montanari armeni che ancora vi abitano, attaccati alla loro antica patria come l’ostrica allo scoglio.
Ma non è bastato: ecco la grandinata finale, che distrugge ogni cosa. Con una mossa largamente prevedibile, che solo la volontaria cecità dell’intero Occidente può chiamare sorprendente, qualche giorno fa è stato scatenato l’attacco definitivo, con l’impiego di una potenza bellica tale da travolgere ogni resistenza. Sono bastate 24 ore: il governo autonomo dell’Artsakh si è piegato e sta «trattando» la resa. Di quale trattativa possa trattarsi, e sotto quale manto di ipocrisia possa essere coperta questa parola (a me sembra il discorso dell’agnello col lupo prima di essere mangiato…), lo ha descritto perfettamente – nel suo appassionato e lucido intervento di qualche giorno fa alla Commissione per i Diritti Umani “Tom Lantos” del Congresso degli Stati Uniti – Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte Criminale Internazionale dal 2003 al 2012: «Gli Stati Uniti stanno favorendo negoziati fra un genocida e le sue vittime…non si può assistere da spettatori a un negoziato fra Hitler e i deportati di Auschwitz!».
In queste ore, si sta verificando proprio questo. Mentre i cosiddetti negoziati sono in corso, la gente dell’Artsakh ha gettato la spugna e ha cominciato a scappare. Nella piccola capitale Stepanakert, una cittadina linda e piacevole al centro di una conca verdeggiante, arrivano con tutti i mezzi e con le loro povere cose i contadini dei villaggi. Hanno distrutto quello che potevano, ma sanno – per triste esperienza – che le loro chiese saranno dissacrate e vandalizzate, le loro tombe aperte e le ossa dei loro cari sparse al vento, come è già successo nei territori perduti dopo la guerra del 2020. Sanno che l’intento preciso dei conquistatori è quello di fare terra bruciata di migliaia di anni di civiltà armena in quei luoghi e di riscrivere la storia, come è puntualmente e totalmente avvenuto nell’altro territorio – armeno da millenni – che era stato attribuito da Stalin alla sovranità azera, il Nakhicevan. E questo è propriamente genocidio, come da definizione dell’Onu del dicembre 1948: dopo l’eliminazione fisica, estirpare anche ogni traccia della cultura del popolo annientato.
E non a caso, mi è arrivata anche la dichiarazione molto esplicita in proposito di 123 intellettuali turchi, tutte persone coraggiose che ben conoscono il rifiuto ancora totale da parte di tutti i loro governi di riconoscere il genocidio compiuto dai Giovani Turchi più di cent’anni fa: e che – fra l’altro! – stanno rischiando di persona. Mettono in guardia contro la politica genocida portata avanti dall’Azerbaigian (stretto alleato della Turchia) nel Nagorno-Karabakh, e chiedono alla comunità internazionale di agire per prevenire nuove tragedie, invece di restare a guardare. Il regime azero, del tutto incurante delle sollecitazioni ricevute da organizzazioni internazionali e da molti Paesi per interrompere il blocco del corridoio di Lachin, ha lanciato operazioni militari durante l’assemblea generale delle Nazioni Unite, scrivono, «mentre il mondo intero osservava in silenzio. Esiste un chiaro pericolo di pulizia etnica e di genocidio. Loro cercano di prendere il controllo completo dell’Artsakh e di eliminare gli armeni dai territori dove hanno vissuto per secoli, e in caso di resistenza semplicemente di ucciderli».
Chiaro e partecipe, ma non basta. Nel silenzio colpevole dell’Ue, forse però qualcosa si muove al Congresso americano. Sono state presentate ben tre proposte di legge per un intervento umanitario diretto e chiedendo sorveglianza per le popolazioni in pericolo. L’autorevole Congressman Chris Smith, co-capo della Commissione per i diritti umani del congresso, e un gruppo bipartisan hanno fatto audizioni, compresa la situazione e appena depositata una proposta di legge chiamata Preventing Ethnic Cleansing and Atrocities in Nagorno-Karabakh Act of 2023 (H.R.5686), che esige che «il Dipartimento di Stato crei una strategia dettagliata per promuovere la sicurezza a lungo termine e il benessere degli armeni del Nagorno-Karabakh, attraverso importanti misure di sicurezza.». Questo piccolo popolo cristiano, con le sue chiese di cristallo, i monasteri antichissimi, i preziosi manoscritti miniati e le celebri croci di pietra è immagine forte per noi occidentali, immersi in un’inerzia distratta e malata; e non può non far venire in mente le gabbiette dei poveri canarini che i minatori portavano con sé come segnale di pericolo, perché morivano prima degli esseri umani in caso di perdite di gas…”.
Meglio non si potrebbe dire, o scrivere.
Luis Moreno-Ocampo, già Procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI), nel Rapporto Genocide against Armenians in 2023 del 7 agosto 2023, trasmesso al Consiglio di sicurezza dell’ONU e alla stessa CPI, ha scritto senza mezzi termini che era in corso un genocidio contro i 120.000 armeni presenti nel Nagorno-Karabakh. Il magistrato ha usato l’espressione “genocidio” proprio perché erano state deliberatamente imposte condizioni di vita tese a provocare la distruzione fisica del gruppo di armeni. Lo strumento usato per conseguire l’obiettivo era ancora una volta la fame, come accadde, contro gli stessi armeni, nel lontano 1915.
La denuncia del Patriarca
Il Patriarca di Cilicia degli Armeni Cattolici, Raphael Bedros XXI Minassian, durante la celebrazione dell’anniversario della sua ordinazione sacerdotale, tenutasi il 24 giugno scorso a Napoli, riferendosi al Nagorno Karabakh aveva denunciato che «120mila esseri umani si trovano isolati, dopo che le autorità dell’Azerbaigian hanno deciso di bloccare l’unica strada che collega la regione all’Armenia e al resto del mondo: 120mila persone, tra cui anziani, donne e bambini, a cui viene negata la dignità di vivere». Tutto ciò, aveva aggiunto il Patriarca, nel «totale silenzio dei media, delle autorità internazionali e di chi oggi vuole far prevalere il profitto sui valori».
Il 21 settembre l’ambasciatore armeno Andranik Hovhannisyan, rivolgendosi al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra, ha fornito qualche informazione sul concetto azero di “paradiso”. L’Azerbaigian sta attuando una «pulizia etnica» e sta commettendo un «crimine contro l’umanità. Questa non è una semplice situazione di conflitto, è un vero e proprio crimine contro l’umanità e dovrebbe essere trattato come tale», ha affermato il diplomatico. Il 29 settembre erano già arrivati in Armenia quasi 90.000 rifugiati provenienti dal Nagorno-Karabakh. Nei pressi di Stepanakert, lo stesso giorno, si contavano almeno 170 morti e circa 70 feriti per l’esplosione di un deposito di carburante.
Quello che si sta consumando nel fu Nagorno Karabakh è un genocidio. Ma la civile e democratica Europa fa finta di non accorgersene.