Il suo è un possente, autorevole j’accuse. “Gli avvocati hanno fatto ricorso e hanno fatto il loro lavoro. La magistratura ha espresso il proprio parere. Le ingerenze non aiutano nessuno perché creano conflitti e non aiutano a risolvere le questioni istituzionali. L’autonomia dei vari poteri deve essere garantita e le ingerenze reciproche non aiutano nessuno”.
Così padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, commenta in una intervista al Sir il conflitto tra esecutivo e magistratura in seguito alla decisione di una giudice di Catania di non convalidare il trattenimento di tre tunisini nel centro di accoglienza di Pozzallo. Il suo bilancio, a 10 anni dal tragico naufragio di Lampedusa in cui persero la vita 368 persone sono morte, è che nel frattempo sono morte almeno 27.000 persone, non c’è una operazione europea in mare per salvare vite e ci sono “politiche respingenti che riguardano l’Italia e tutti i Paesi dell’Unione europea”.
“Siamo un po’ amareggiati dal fatto che l’Unione europea e i vari governi nazionali continuano a non affrontare la questione da vari punti di vista: si fa di tutto per bloccare le partenze e fare accordi di esternalizzazione, pagando gli Stati perché trattengano le persone, ma non si affronta il nodo centrale che è il salvataggio in mare – sottolinea padre Ripamonti -. Né si affronta bene la questione dell’accoglienza sul territorio, che deve essere da subito integrazione. I cambi legislativi che prevedono che i richiedenti asilo debbano aspettare gli esiti della Commissione per cominciare un processo di integrazione – scuola di italiano, corsi di formazione professionale – certo non aiutano le persone ad integrarsi nei territori. Così negli anni si creano quelle situazioni di mancata integrazione e isolamento”. A proposito della fideiussione bancaria richiesta ai migranti, come previsto dall’ultimo decreto, il presidente del Centro Astalli non crede “che la questione della fideiussione sia la soluzione al problema, né un disincentivo a partire ma penalizza e criminalizza quelle persone che non avendo altre alternative hanno dovuto affidarsi ai trafficanti. Sembra quasi che la logica che vige nei centri di detenzione in Libia, pagare per essere liberi, si estenda un po’ anche all’Europa. Questo fa male perché non è la prospettiva di una Unione europea culla dei diritti. Far pagare la libertà a persone che scappano perché da loro la libertà non viene garantita è un po’ triste”. A proposito dei minori migranti non accompagnati fa notare che l’aumento di arrivi “è legato ad un restringimento delle maglie dell’immigrazione per gli adulti. Si abbassa l’età per fare in modo che i minori che arrivano abbiano più possibilità di fermarsi sul territorio europeo. Se non si cambia la prospettiva e la politica avremo sempre più minori in arrivo e sempre meno tutelati”. “Il decreto che in casi di necessità fa risiedere i minori nei centri insieme agli adulti, anche se in spazi isolati e circoscritti, è un altro modo per non tutelare i minori”, afferma. “Purtroppo – conclude padre Ripamonti – anche qui criminalizzare i minori non aiuta e non servirà a trovare soluzioni di politica migratoria”.
“I tre accordi che l’Italia ha stretto con Tunisia, Libia e Turchia non hanno al centro la dignità dei migranti, ma i nostri interessi, la nostra tranquillità, il nostro profitto. E non salvaguardano la persona cui va garantita anche la libertà di movimento se ci consideriamo uno Stato democratico”, rimarca in una intervista ad Avvenire l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes. “La Chiesa ripete che il Mediterraneo deve essere un luogo della vita. Il che significa “no” a ulteriori vittime del mare, “no” a muri sia ideali sia materiali, “no” a sbarramenti nei confronti di chi cerca liberà, sicurezza e pace. Se in dieci anni i richiedenti asilo e i rifugiati sono raddoppiati e sono diventati 110 milioni, dovremmo interrogarci su come tutelare tutti coloro che sono costretti a lasciare la propria terra: vuoi perché sono profughi ambientali; vuoi perché hanno una guerra sotto casa; vuoi perché i loro diritti vengono calpestati: cito le donne dell’Afghanistan o quanti non possono esprimere la propria fede, pena la persecuzione…”. Ed ancora: “L’accoglienza in Europa dipende dalle scelte politiche dei singoli Stati. Ad esempio, la protezione assicurata agli sfollati dell’Ucraina è stata ampia e condivisa. Questa dovrebbe essere la norma nel continente con un sistema di assistenza calibrato rispetto al numero degli abitanti di ogni Paese. Non possono esserci nazioni che si fanno carico da sole di questo compito. È il caso dell’Italia dove però il meccanismo è totalmente inadeguato. Ad oggi le persone cui viene riconosciuta una protezione internazionale sono costrette a lasciare i Centri di accoglienza straordinaria e andare per strada perché non ci sono posti nei luoghi deputati ai percorsi di integrazione. E di integrazione abbiamo bisogno nelle nostre città”
Se questo è un Paese stabilizzato…
Da un report di agenzia Nova: “Il governo della Libia orientale, non riconosciuto dalle Nazioni Unite, ha posticipato la conferenza per ricostruire la città di Derna devastata dalle recenti inondazioni al primo e 2 novembre. In precedenza, l’esecutivo designato dalla Camera dei rappresentanti (il Parlamento eletto nel 2014 e che si riunisce nell’est del Paese) aveva convocato la conferenza per il 10 ottobre. Oggi, il Comitato preparatorio ha motivato il rinvio “per ragioni logistiche” e per “dare alle imprese il tempo necessario per presentare studi e progetti efficaci che contribuiscano alla ricostruzione”. Il 25 per cento della città libica di quasi 100 mila abitanti, situata a metà strada tra Bengasi e il confine con l’Egitto, è stato spazzato via dalla piena generata dal cedimento di due dighe cosiddette “embankment dam with clay fill” (cioè costituite da materiale roccioso con un’anima impermeabile costituta da argilla) durante il passaggio del ciclone sub-tropicale Daniel, che in poche ore ha scaricato l’acqua piovana che normalmente cade nell’arco di un anno. Lo scorso 29 settembre, l’inviato speciale degli Stati Uniti in Libia, l’ambasciatore Richard Norland, aveva detto che “la proposta di tenere una conferenza per la ricostruzione a Bengasi il 10 ottobre sarà sicuramente più efficace se sarà condotta congiuntamente e globalmente in coordinamento con le istituzioni che gestiscono risorse e finanziamenti tenendo conto degli interessi del popolo libico” Vale la pena ricordare che dal febbraio 2022 la Libia è divisa in due amministrazioni politico-militari: da una parte il Governo di unità nazionale con sede a Tripoli del premier Abdulhamid Dabaiba, riconosciuto dalle comunità internazionale e appoggiato soprattutto dalla Turchia; dall’altra il Governo di stabilità nazionale guidato dal premier designato Osama Hammad, di fatto un esecutivo parallelo con sede a Bengasi manovrato dal generale Khalifa Haftar, comandante in capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl). Dopo il disastro di Derna, le due autorità rivali hanno avviato un coordinamento – seppure al livello informale – per ricevere gli aiuti internazionali (con l’Italia in prima fila) che, sul terreno, vengono organizzati logisticamente dalle forze di Haftar. Il rinvio della conferenza sembra indicare che il governo della Libia orientale stia incontrando difficoltà a mobilitare il sostegno internazionale da parte di aziende e governi internazionali, dato il mancato di riconoscimento da parte delle Nazioni Unite e della maggior parte dei paesi del mondo.
Guerra fratricida
La ricostruisce, con accuratezza, per Il Fatto Quotidiano, Giulia Cannizzaro: “L’ennesima lotta di potere si profila all’orizzonte in Libia. Questa volta, uno contro l’altro ci sono Elseddik Haftar, figlio maggiore di Khalifa Haftar, e Saddam Haftar, il più giovane. Due figli molto diversi che si contendono la fiducia del padre come nella più banale delle storie familiari. Il primo – somigliante in maniera impressionante al padre- è una mosca bianca nella famiglia dell’uomo forte della Cirenaica: non ricopre incarichi militari, non è accusato di gravi crimini contro l’umanità e non c’è – almeno per ora- alcun sospetto di corruzione. Super attivo sui social, nella sua biografia su X, si presenta come uomo d’affari e dottore in diritto internazionale.
Elseddik viene definito dagli analisti il “jolly”, la faccia pulita che potrebbe servire al feldmaresciallo nel caso in cui la sua candidatura alle eventuali prossime elezioni, non andasse in porto. Quando lo scorso 11 settembre, la città di Derna veniva spazzata via dalla furia della tempesta Daniel e dal conseguente collasso delle due dighe ai margini della città, Elseddik Haftar si trovava a Parigi. Una piccola sosta prima di volare a Strasburgo al Parlamento Europeo, per poi spostarsi a Bruxelles per partecipare al Press Club Bruxelles Europe, un forum permanente di discussione che riunisce i giornalisti internazionali e che è stato inaugurato nel 2010 dall’ex presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso.
Il motivo della sua visita alle istituzioni europee è chiaro: fare lobbying apparentemente per conto del padre, ma anche e soprattutto per sé stesso. Le notizie catastrofiche da Derna lo hanno colto di sorpresa ma non impreparato. Alle domande della stampa ha risposto sicuro: “Mio padre, grazie alla sua saggia leadership, aveva intuito le cose giorni prima che si verificasse la catastrofe. È stato istituito un allarme totale: l’esercito ha emesso un ordine per i cittadini di evacuare tutta l’area. Ma dato che ciò non aveva precedenti nella nostra regione, molti residenti non hanno reagito”.
Elseddik ha difeso strenuamente l’operato del padre, ma la sua versione è stata ampiamente smentita subito dopo. D’altra parte, la fedeltà al capofamiglia è la cifra di tutti i figli di Haftar. Ma Elseddik sa che, rispetto agli altri, lui ha una marcia in più: non ha scheletri nell’armadio e ha una buona rete di contatti in Europa. “Penso di avere tutti i mezzi per aiutare e stabilizzare la Libia e mettere in atto la coesione e l’unità dei libici”, ha detto ai giornalisti. “Se i libici vedono che posso aggiungere valore, cambiare le cose- ha aggiunto- allora perché no?”. Ma l’ascesa al potere di Elseddik Haftar si preannuncia difficile. Il feldmaresciallo, infatti, ha 6 figli, uno di quali è Saddam Haftar, il più piccolo e anche il più feroce e avido di potere, il cui nome è un omaggio al dittatore iracheno. Accusato da Amnesty International di crimini di guerra, Saddam ha 32 anni e dal 2016 è a capo della milizia Tareq Ben Zayed, la più influente nell’ Esercito nazionale libico (Lna), ovvero la forza militare della Libia Orientale. É considerato da molti il possibile successore di Khalifa Haftar.
Anche il padre lo crede, tant’è che ha chiesto ad Aguila Saleh, il presidente dalla Camera dei Rappresentanti, e a Mohammed Menfi, il presidente del Consiglio presidenziale, di sostenere Saddam nelle future elezioni. Haftar ha promosso la sua candidatura anche tra i capitribù della Cirenaica alcuni dei quali, però, non vedono di buon occhio il figlio più piccolo del feldmaresciallo: troppo violento. Nonostante non abbia mai fatto l’accademia militare, è stato subito promosso capitano nel 2016 e poi colonnello nel 2019. Le promozioni lampo, però non sono finite qui per Saddam. La scorsa settimana, infatti, è stato nominato capo del Disaster Response Committee, organo incaricato di gestire l’emergenza a Derna. Peccato, però, che proprio il giovane rampollo di casa Haftar non abbia alcuna esperienza in fatto di organizzazione dei soccorsi. In passato non si è trovato ad affrontare neanche una piccola evacuazione, un incendio. Niente. Eppure uno degli incarichi più importanti e delicati di questo momento in Libia, è stato affidato proprio a lui. […]Nel frattempo Khalifa Haftar continua a tessere la rete di supporto internazionale al suo potere. Martedì, 26 settembre è partito alla volta di Mosca dove ha incontrato prima il ministro della Difesa Sergei Shoigu e giovedì, 28 settembre, il presidente Vladimir Putin. Il capo del Cremlino e il feldmaresciallo non si incontravano dal 2019, cioè dai tempi dell’offensiva di Haftar su Tripoli – poi fallita- sostenuta dai mercenari della Wagner. “Hanno discusso della situazione in Libia e nella regione nel suo complesso”, ha dichiarato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov all’agenzia di stampa statale russa Tass. Sui contenuti del loro incontro non si sa ancora nulla di preciso, ma due questioni sono sul tavolo: la possibilità per le navi russe di utilizzare un porto – a scelta fra Tobruk o Bengasi- per rifornimenti o riparazioni; e il futuro del sostegno russo alla causa di Haftar, dopo la dipartita del capo della Wagner, Yevgeny Prighozhin. Il successore dell’ex cuoco di Putin è stato già scelto ed è Andrey Troshev, colonnello in congedo, già capo di staff di Wagner in Siria. Toccherà a lui riorganizzare e riarmare il gruppo in Libia”.
E pensare che in Italia, dalle parti di palazzo (Chigi) c’è ancora chi alimenta, con la grancassa di una compiacente stampa modello Istituto Luce 2.0, che l’Italia conti ancora qualcosa in Libia. I players nello Stato fallito chiamato Libia sono altri: Russia e Turchia, in primis, e poi Egitto, Qatar, Emirati Arabi Uniti, un po’, ma molto poco, la Francia. Tutti, tranne Roma.