La tragedia di Gaza figlia di un atto di guerra perpetrato da Hamas e di una macelleria inaudita messa in atto dal governo israeliano, sta facendo migliaia di vittime. Tra queste ultime vi sono -al momento- 27 giornalisti.
A stragrande maggioranza palestinesi -20 palestinesi, tre israeliani un libanese- insieme a 8 colleghi feriti e tre dispersi. Non è la prima volta che coloro che operano nei teatri di guerra vengono uccisi: ma mai in simili proporzioni, dopo un periodo così limitato dall’inizio del conflitto.
I Reporter senza frontiere stanno denunciando con decisione lo scempio in corso. I giornalisti vengono uccisi attraverso i bombardamenti e le loro famiglie sono coinvolte in massacri che seguono una strategia ben precisa: imporre un blackout mediatico a Gaza. Qui, persino più che nella martoriata Cisgiordania, la vendetta scelta dal premier Netanyahu ha bisogno del segreto. Guai a conoscere davvero i contorni di ciò che succede in una zona del mappamondo disdegnata per anni dal perbenismo occidentale, persino quello di stampo democratico.
Gaza non esiste nel racconto geopolitico. È una pura espressione geografica, avrebbe detto il progenitore del realismo crudele nelle vicende internazionali. Infatti, se si sfogliano quotidiani e rassegne degli ultimi mesi della Striscia non c’è traccia. Simile rimozione va al di là dello stesso dramma dell’Ucraina e rientra pienamente nella storica razzista sottovalutazione delle vittime non di colore bianco.
Ora, però, siamo ad un punto di svolta. Si mira in modo chirurgico e programmato, a cominciare dalle tende di fortuna che ospitano le antenne e le corrispondenze di diverse testate internazionali come Bbc, Reuters, Afp, oltre ai riferimenti locali. Per non dire di Al Jazeera, a rischio di chiusura della sede in Israele e con il corrispondente straziato per l’uccisione di dodici congiunti che avevano seguito le indicazioni dell’esercito di spostarsi verso il sud della Striscia.
La questione va oltre la turpe cavalcata del Cavaliere della morte. Si stanno uccidendo persone (circa un terzo dell’intero conto su scala mondiale). Si sta uccidendo la libertà di informare e di essere informati. Ciò che avviene a Gaza deve rimanere nei confini dei difficilissimi e forzatamente limitati (ancorché talvolta coraggiosissimi) servizi dei corrispondenti.
Non si può e non si deve fornire a chi legge, ascolta o guarda una narrazione meno stereotipata, in grado di fornire notizie reali e contesti oggi sfuggenti per l’assenza di adeguate voci di dentro.
La guerra non sopporta l’informazione indipendente. Una prova inquietante della delega alle propagande dei soggetti belligeranti fu poca giorni fa l’eccidio nell’ospedale civile raggiunto da razzi e ordigni ferali: versioni contrapposte, prive di una credibile intermediazione giornalistica.
L’avvento delle tecniche sofisticate della cyberguerra fa sì che la narrazione mediatica sia considerata superflua o persino dannosa. Se algoritmi e intelligenza artificiale prendono il sopravvento, prevalgono automatismi e scelte che non si possono rivelare.
Gaza, insomma, è la prova generale di un cambio di paradigma: alla ricerca narcisistica della rappresentazione si sostituisce il buio senza conoscenza.
La federazione della stampa italiana, il sindacato internazionale nonché associazioni come Articolo21 hanno alzato la voce su una materia incandescente.
In Israele esiste indubbiamente un’informazione capace di indipendenza, ma la morsa repressiva sta arrivando anche lì.
Senza avere il quadro cognitivo necessario, vince il richiamo classico: buono e cattivi, angeli e demoni.
Per questo a Gaza si consuma un pezzo di storia, iniziata con una vittima dimenticata: Raffaele Ciriello, da ricordare oggi con commozione. Come da non dimenticare la nota inviata di Al Jazeera, Abu Akleh uccisa l’11 maggio scorso dall’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin.