Il “Sabato nero” d’Israele non è frutto di “errori” esiziali. Ma di un dolo che chiama in causa i vertici di governo e quelli militari.
Israele sapeva del piano di Hamas da oltre un anno
Oltre un anno prima del 7 ottobre, l’esercito israeliano aveva ricevuto informazioni sul piano di Hamas di attaccare le città israeliane e le basi dell’esercito. E ben due mesi prima dell’assalto, una sottufficiale aveva avvertito che quello scenario da incubo poteva verificarsi davvero, ma è stata ignorata.
A scriverlo è il quotidiano israeliano Haaretz, che ricostruisce con nuovi dettagli quello che definisce “il fallimento” dell’intelligence e dei vertici militari di Israele, che hanno sottovalutato la minaccia ed erano impreparati all’orrore che si è consumato 50 giorni fa nel sud dello Stato ebraico. Secondo Haaretz, Hamas ha iniziato a preparare il suo attacco da Gaza anni fa, ma per tutto questo tempo l’analisi di Israele è stata errata. E per oltre un anno, l’intelligence militare aveva informazioni dettagliate sul piano del gruppo di sfondare il confine di Gaza in dozzine di punti e attaccare decine di comunità e postazioni dell’esercito. Funzionari della difesa citati dal giornale hanno dichiarato che “la maggior parte di queste informazioni sono state condivise con il servizio di sicurezza Shin Bet” e “la leadership politica aveva familiarità con almeno una parte di queste informazioni. Ma Israele non si è adeguatamente preparato alla minaccia e non sembrava credere che il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, intendesse attuare il piano”.
“Israele ha perso la guerra”.
A scriverlo è un grande inviato di guerra oltre che fine analista: Domenico Quirico.
Scrive Quirico su La Stampa: “Israele ha perso la guerra. Per la prima volta in settantaquattro anni. Ora i cannoni tacciono, per quattro giorni si spera, «prorogabili» come enuncia il linguaggio burocratico che non risparmia neppure la tragedia delle guerre. Ma il meccanismo del cessate il fuoco è avviato, seppure a puntate, Hamas distillerà la sua macabra contabilità, dieci oggi, dieci tra una settimana, nella liberazione degli ostaggi costringendo a prolungarlo, e avrà tempo di riorganizzarsi, mentre la rete delle pressioni internazionali si avvilupperà sulle intenzioni israeliane di riprendere gli attacchi. Che, a questo punto, la porrebbero dalla parte del torto anche con la tentennante solidarietà degli Stati Uniti. Il cui scopo fin dall’inizio è stato quello di acclimatarsi di nuovo sulla «normalità» degli ultimi decenni, fatta da un equilibrio di chiacchiere inutili sulla «necessità di risolvere finalmente il problema dei rapporti tra Israele e l’entità palestinese» e la realtà di crucci e orrori di una guerra di attentati, intifade e rappresaglie che non disturbavano troppo la normalità del nostro mondo. Si torna dunque alla routine. In questa parte del mondo supponiamo di essere savi per antonomasia.
Lo Stato ebraico e i suoi generali hanno perso così l’iniziativa strategica. Ora restano sospesi in un nulla, tengono in mano una parte della Striscia di Gaza senza aver chiaro che fare: creare (ma glielo permetteranno?) uno spazio vuoto di uomini, un cumulo di sabbia e di rovine da presidiare a caro prezzo per evitare nuove incursioni? O ritirarsi lasciando mano libera al ritorno di Hamas a cui le sofferenze patite assicureranno ancor più consenso della popolazione? E poi ci sono le decine di migliaia di israeliani della frontiera Sud e di quella Nord con Hezbollah, sfollati interni da sostenere. Il fatto che non possano tornare a casa è la prova che la vittoria e la sicurezza promessa da Nethanyau sono una bugia. E per quanto tempo un Paese sviluppato come lo Stato ebraico reggerà una popolazione sotto le armi e una economia di guerra che allontana investimenti e progetti? Lenin raccomandava sempre di non rispondere alle provocazioni e di non lasciarsi imporre il luogo e il momento della battaglia. Era un saggio consiglio.
L’errore di trattare con Hamas, con cui aveva dichiarato il 7 di ottobre l’unico rapporto possibile sarebbe stato l’annientamento, è stato soltanto l’ultimo e non il più grave. Non poteva far altro. Salvare le vite degli ostaggi è una buona causa. Come consentire rifornimenti ai fuggiaschi di Gaza. Il problema è diverso. Lo slogan «nessun surrogato della vittoria» è pericoloso, ma deriva dalla esperienza di una nazione che fin dal 1948 data della sua nascita travagliata non ha mai conosciuto sconfitta. È il sette ottobre, quando Hamas ha fatto sanguinosamente irruzione nel suo territorio e ucciso e rapito i suoi, che Israele è stato sconfitto: senza rimedio. Un mese e più di forsennata invasione di Gaza non ha posto rimedio a quel fatto, anzi l’ha semplicemente reso evidente. Il principio di decifrazione del Vicino Oriente e del suo ordine visibile è la confusione della violenza e della forza, questo è ciò che regola collere, rancori, oscurità dei casi e delle contingenze, definisce il netto confine tra vittoria e sconfitta.
Israele ha perso la corazza della sua invincibilità, la certezza, dei suoi cittadini ma anche dei suoi nemici, che poteva esser scalfito da attentati anche sanguinosi; ma che Israele aveva nella sua esistenza radici invincibili.
Israele è condannata ad esistere con le proprie azioni, con la manifestazione della sua forza superiore. È la certezza di questa realtà che crea le condizioni della sua sopravvivenza. Questo essere vivi, ma lavorati dagli enigmi di un destino, comporta il rischio di diventare uno stato bellicista, spinge a una tendenza all’isolamento, a una visione semplicistica del mondo diviso in due campi, quello della oscurità, i nemici, e quello della luce, noi stessi. Un rischio che anche gli Stati Uniti stanno scontando con la loro ingloriosa decadenza nel controllo del mondo.
Gli Stati arabi e il nazionalismo palestinese non erano mai riusciti a infrangere questo paradigma, ci voleva un soggetto mosso da una fanatica distinzione tra luce e tenebre per riuscirci, qualcuno capace di organizzare, con gli odi e le intransigenze, un ciclopico sistema di chiuse e di dighe a funzionamento meccanico. Ed è quanto Hamas ha realizzato sanguinosamente il 7 di ottobre.
Il problema insolubile di Israele, dopo aver perso la propria inviolabilità, era l’assenza di strategie praticabili, sperimentate: il nemico aveva pensato e realizzato l’impensabile. Dove andare da lì? L’antico bivio tra risposta flessibile, una escalation graduale di raid e bombardamenti mirati, e il suo contrario, la rappresaglia massiccia, non aveva più senso. Soprattutto di fronte alla propria opinione pubblica. Non restava che trasformare Gaza in un solco di rovine di qualche centinaio di chilometri. Troppo e troppo poco. Non c’era alternativa al distruggere, semmai la obiezione dovrebbe essere nel fatto che dopo 70 anni le cose stiano come stanno. Lo scopo proclamato, eliminare Hamas fino all’ultimo miliziano, era una condizione di vittoria irraggiungibile visto che il nemico era diluito tra una popolazione di due milioni di persone, nascosto sotto terra, deciso a pagare anche qualche prezzo per attirare Tzahal sempre più a fondo nella trappola di Gaza.
E poi c’è l’opinione pubblica mondiale. Hamas non ha il problema di preoccuparsene, può usare i mezzi che vuole, poiché si proclama forza rivoluzionaria. Sa che questo è un incubo di Israele. L’opinione pubblica è qualcosa di immateriale e astratto, non ha diplomazia né eserciti, ma può essere più forte di entrambi, soprattutto in un Occidente stanco ed egoista che vuole impietrire il mondo in un senso di benessere, in un ordine apparente. E dopo un mese di guerra totale a Gaza le immagini dei massacri del 7 di ottobre sono sfumati nel passato, coperti da quelli delle rovine di Gaza che vomitano sulla strada tutto il loro fango di detriti, rottami, polvere, di altri bambini uccisi e del pigia pigia dei fuggiaschi che a mano a mano che errano sono cacciati attraverso i millenni”.
Così Quirico. Da condividere, anche nelle virgole.
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