Il presidente del Consiglio Europeo Michel domani si recherà in Ungheria per tentare una mediazione dopo che il premier magiaro, in una missiva, ha richiesto ai 27 un «dibattito strategico» sull’Ucraina. A metà dicembre i lader dovranno decidere – tra le varie cose – se dare il via libera o meno ai negoziati di adesione con Kiev, Chisinau e Sarajevo (oltre che a concedere lo status di Paese candidato alla Georgia) in quella che, a Bruxelles, viene descritta come la tornata di allargamento più «geopolitica» di sempre.
Ma il focus, naturalmente, è sull’Ucraina, che ieri ha subito il più grande attacco di droni da parte di Mosca contro la capitale Kiev dal febbraio 2022 e che ha risposto con il lancio di droni contro le regioni russe di Bryansk, Smolensk e Tula, quadro dei quali sono stati abbattuti dalla difesa aerea di Mosca.
«Gli ultimi sviluppi riguardo la guerra in Ucraina oltre che la sicurezza globale e il contesto economico-politico richiedono un periodo di riflessione nonché una potenziale revisione dei nostri obiettivi e dei nostri strumenti», mette nero su bianco il premier ungherese. «Il Consiglio Europeo – aggiunge – non è nella posizione di prendere decisioni chiave sulle proposte garanzie di sicurezza a Kiev, sul sostegno finanziario addizionale, sull’inasprimento delle sanzioni alla Russia o sul processo di allargamento a meno che non si trovi un accordo sulla strategia futura per l’Ucraina». Traduzione: il vertice dei leader di metà dicembre è a rischio perché tutti questi temi richiedono l’unanimità e Orban senza troppi veli minaccia il veto.
Ora, che Orban sia il `signor no´ dell’Ue non è un mistero ma sino ad adesso le impuntature di Budapest non hanno impedito all’Europa di rispondere a Mosca. Il timore, però, è che qualcosa sia cambiato e che il leader magiaro sia diventato più intransigente. Alcuni Paesi, specie nell’est, iniziano a domandarsi se non sia eterodiretto dal Cremlino (la recente stretta di mano con Vladimir Putin non ha aiutato). «Se la tattica è quella di puntare i piedi per ottenere concessioni su altri tavoli, come ad esempio i fondi bloccati del Pnrr, è un conto, se invece l’intento è quello di mettere strategicamente in crisi l’Ue in vista delle elezioni europee, un altro», confida un’alta fonte europea. Bene. Michel tenterà di scoprirlo. Budapest d’altra parte si è vista congelare ben 37 miliardi di euro di vari fondi europei (non c’è solo il Pnrr) sullo sfondo del braccio di ferro con la Commissione – e in ultima istanza con lo stesso Consiglio – per il rispetto dello Stato di diritto, dell’indipendenza della magistratura e del buon uso dei fondi Ue. Tutti nodi che ora stanno arrivando al pettine.
Ma c’è di più. Al Consiglio di dicembre si parlerà anche di quattrini – ovvero la revisione del bilancio comunitario, con gli extra fondi chiesti dalla Commissione, in tutto quasi 90 miliardi – e di migrazione. I temi s’intrecciano fra loro e c’è il rischio che il no di Orban faccia in realtà comodo anche ad altri Paesi per nascondere varie stanchezze emerse dopo anni di crisi e che, prese nel loro complesso, potrebbero minare l’unità dei 27 proprio in un momento in cui serve un ulteriore, poderoso, scatto di reni. Nel sostegno all’Ucraina – su sanzioni, aiuti militari e finanziari, e appunto allargamento – ma pure, ad esempio, sulla migrazione (con l’approvazione del Patto). Un Consiglio fallimentare costerebbe molto all’Europa in termini di credibilità. Addossare la colpa al solo Orban permetterebbe di guadagnare tempo e salvare la faccia. Per un po’, almeno.