Hanno sfidato il regime nelle piazze. E poi disertando i seggi. Un boicottaggio di massa. Nel nome di Mahsa Amini.
Seggi vuoti
Annota Roberto Bongiorni su Il Sole24Ore: Il consenso, prima di tutto. Per darsi una parvenza di legittimità, soprattutto agli occhi della comunità internazionale, ogni regime ha bisogno del consenso – estorto o comunque “caldeggiato” – dei cittadini che governa. Lo sa bene la teocrazia iraniana. Anche in presenza di elezioni il cui risultato è scontato, come quelle di venerdì, l’affluenza è il dato che più conta, quello più difficile da manipolare. E questa volta le immagini dei seggi vuoti diffuse dall’opposizione sui social media, soprattutto nelle grandi città, parlano meglio di tanti proclami: il boicottaggio del voto è stato il mezzo a cui sono ricorsi milioni di iraniani, soprattutto giovani, per dimostrare il proprio dissenso. Un atto di protesta silenziosa nelle prime elezioni dopo la morte di Mahsa Amini, la giovane curdo iraniana fermata dalla polizia morale perché non portava il velo in modo appropriato e percossa a morte in carcere il 16 settembre del 2022. Fu la scintilla che diede il via a una stagione di grandi proteste in tutte le città del Paese…”.
Boicottaggio, arma contro il regime
Rimarca Nicola Pedde su Huffington Post: “La questione dell’affluenza alle urne rappresenta un aspetto di grande importanza per i vertici della Repubblica Islamica, che la considerano come il principale strumento di legittimazione tanto sul piano nazionale quanto su quello internazionale, dove le elezioni iraniane sono da sempre caratterizzate da molteplici accuse, soprattutto nel merito della selezione dei candidati. Al fine di incrementare il numero dei votanti, quindi, è ormai prassi consolidata da tempo quella di annunciare l‘estensione dell’apertura dei seggi di alcune ore oltre al limite previsto per la chiusura, giustificando ufficialmente la manovra come necessaria per gestire le lunghe code che si formano davanti ai seggi mentre in realtà la proroga della chiusura è funzionale alla necessità di incrementare quanto più possibile un numero di votanti ormai mediamente basso.
Le elezioni del 2024 rappresentano inoltre un appuntamento importante per i vertici del potere, per almeno due ragioni. La prima è quella connessa al fatto di essere la prima tornata elettorale dopo l’ingente ondata di proteste dello scorso anno – dopo l’uccisione della giovane Mahsa Amini da parte della cosiddetta “polizia morale” – e quindi gravate dal rischio di una accentuata astensione dal voto soprattutto da parte dei più giovani. La protesta è stata sopita, in parte in conseguenza della repressione e in parte perché non strutturata sotto forma di vero e proprio movimento e quindi priva di una vera e propria leadership, ma le ragioni profonde del malessere sociale sono sempre presenti e ampiamente condivise dalla popolazione, portando i vertici della Repubblica Islamica a temere un colossale crollo dell’affluenza per quest’anno. Crollo che in realtà non si è poi verificato, sebbene confermando un andamento nettamente al ribasso rispetto alle medie storiche del paese, che hanno fatto registrare in occasione delle fasi politiche del riformismo di Khatami e del pragmatismo di Rohani percentuali pressoché doppie rispetto a quelle dell’ultimo decennio.
La seconda ragione è invece rappresentata dalla contestuale elezione dell’Assemblea degli Esperti, che dura in carica otto anni e che verosimilmente potrebbe essere la compagine chiamata in futuro ad esprimersi nella difficile scelta della prossima Guida Suprema. L’ayatollah Khamenei ha oggi 84 anni, secondo molti non gode di buona salute e il mandato della prossima Assemblea viene pertanto ritenuto da più parti come quello che dovrà affrontarne la successione, con tutte le incognite del caso. Non sembrano allo stato attuale essere presenti candidati possibili per questo compito e in molti ritengono che con la morte di Khamenei potrebbe aprirsi una fase di profonda trasformazione istituzionale, di fatto aprendo alla sostanziale fine della teocrazia. Questo fattore, peraltro, deve essere posto in relazione anche al mutamento generazionale che si è ormai compiuto nel paese al vertice del sistema politico e amministrativo. La prima generazione del potere, quella emersa dal processo rivoluzionario e di espressione perlopiù clericale, è ormai numericamente ridottissima e ha da tempo lasciato spazio ad una seconda generazione, che non è tuttavia espressione del clero come la prima quanto piuttosto del vasto apparato militare e industriale del pervasivo sistema della Sepah-e Pasdaran, o Irgc. Rappresentando questi ormai l’ossatura centrale del sistema politico e amministrativo del potere, in molti si chiedono quale interesse potrebbero nutrire nel preservare un sistema dominato al vertice da una figura del clero, del quale loro non sono espressione, aprendo quindi alla possibilità di un processo di riforma che, pur salvaguardando formalmente l’aspetto religioso delle istituzioni, favorisca una traslazione del potere verso la presidenza.
Poche invece le aspettative in termini di risultati, essendo scontata anche in questa legislatura una nettissima prevalenza di deputati di area conservatrice. Circa 50.000 individui hanno presentato domanda di candidatura per le elezioni ma il Consiglio dei Guardiani – l’organo istituzionale che, tra le altre cose, autorizza le candidature in base a norme alquanto arbitrarie – ne ha autorizzati alla fine solo 15.200, comunicandone i nomi peraltro poche settimane prima delle elezioni e impedendo a questi di poter condurre un’adeguata campagna elettorale. Di questi, solo 30 sono riconducibili a sigle o posizioni di area riformista, ma il processo di selezione ha portato anche alla squalifica di numerosi conservatori di area tradizionalista e centrista, favorendo ancora una volta in larga misura quella espressione delle frange più radicali.
Allo stesso ex presidente Rohani non è stato concesso di candidarsi per l’Assemblea degli Esperti, dimostrando ancora una volta come la vera arena della politica sia ormai essenzialmente limitata alla sola sfera dei conservatori, che al loro interno sono tuttavia divisi in correnti molto diverse tra loro, e sempre più spesso interessate da posizioni estremamente conflittuali.
Nel corso della settimana ci sarà la conferma ufficiale dell’affluenza alle urne e si potranno conoscere i nomi dei nuovi deputati e degli 88 membri dell’Assemblea degli Esperti, aprendo una nuova legislatura le cui dinamiche sembrano tuttavia interessare sempre meno la società iraniana”.
Cambio di pelle
Di cosa si tratti lo delinea con efficacia Andrea Nicastro per Il Corriere della Sera: “Poniamo che il giorno delle elezioni tedesche, l’ex Cancelliera Angela Merkel non vada a votare per protesta. Oppure che a Mario Draghi venga tolta la laurea in Economia. Sarebbe grave, no? Per la legittimità stessa del sistema. La Repubblica Islamica d’Iran ha questo tipo di problemi. Il presidente più popolare della sua storia, Khatami, venerdì non è andato alle urne. «Elezioni senza competizione» ha fatto sapere. Uno dei suoi successori, Rouhani, avrebbe voluto candidarsi ad una sorta di Senato (L’Assemblea degli esperti). E chi è più esperto di lui che per otto anni è stato presidente ed è, naturalmente, anche un attento studioso del Corano? Per tre volte è stato «squalificato» e la sua richiesta di spiegazioni ignorata. Aggiungiamo che un ex presidente, un ex premier, un ex candidato presidenziale sono agli arresti domiciliari. Ce n’è abbastanza per concludere che l’Iran ha cambiato pelle: da Repubblica Islamica a qualcos’altro, più simile alla Russia o alla Cina, più dittatura militare che utopia religiosa.
Dei 15.200 candidati di venerdì appena 30 erano «moderati», cioè non seguaci del leader supremo Alì Khamenei. I risultati che emergeranno nelle prossime ore sono ininfluenti. Alcune opposizioni calcolano (dall’estero) che l’affluenza sia stata attorno al 6%. Il ministero prevede sopra il 40%. Cosa importa? Tanto gli eletti saranno gli stessi. Anni fa, proprio Khamenei ridicolizzava gli Usa per un’affluenza al voto al 30%, mentre nella Repubblica Islamica la partecipazione era sopra il 70. Oggi l’Iran è più una potenza militare che un laboratorio religioso-politico. È a un passo dall’Atomica e la spesa bellica supera ogni altra voce: elezioni, velo, economia, tutto è funzionale al controllo sociale. Perché l’espansionismo sciita non si fermi”.
Osserva su Sir il professor Giuseppe Casale della Pontificia università lateranense: “Gli appelli alla partecipazione sono stati insistenti come non mai, contrastando gli inviti a boicottare le urne. Il motivo è trasparente, esplicitato dai vertici militari e da Khamenei: votare per confermare la base popolare della Repubblica e deluderne i nemici, individuati in sionisti, Usa, diversi governi europei e multinazionali predatorie che attendono alla porta. Ciò significa scoraggiare la tentazione di orchestrare dall’esterno manovre contro la sicurezza nazionale, sperando in quinte colonne dormienti e sobillatori interni. Allargando lo sguardo al contesto regionale, vuol dire anche non incentivare l’escalation contro gli irradiamenti in Siria, Libano, Yemen, Iraq, in vista dell’avvicendamento alla Casa Bianca e contando le volte in cui Netanyahu, in passato, ha provato ad alzare il tiro su Teheran forzando il freno dei suoi generali.
Se il bicchiere dell’affluenza sarà visto “mezzo vuoto”, si potrà accentuare la sindrome dell’accerchiamento con l’intento di prevenire quanto paventato, potenziando, se possibile, l’asse della resistenza con i sodali regionali. Ma senza escludere un surplus collaborativo con l’Arabia Saudita che, per quanto rivale, non desidera l’aggravamento della tempesta mediorientale. Tanto più perché una destabilizzazione iraniana potrebbe contagiare le petrolmonarchie anche per effetto di un nuovo “vento primaverile”. Il che accelererebbe il percorso Brics guardando a Mosca e Pechino come fonti vitali per finanziare piani di sviluppo e ingenti politiche sociali. Non senza sfruttare l’opportunità di specializzare stabilmente l’industria iraniana nella produzione di armi conto terzi. Con ciò condividendo la formula del “riarmo profittevole” che oggi unisce i gregari dei maggiori contendenti sulla scena globale”.