Il lessico dell’orrore ha bisogno di essere ripulito, edulcorato, reso potabile per l’opinione pubblica internazionale. Genocidio non va bene. Soluzione finale ancor meno. Deportazione, neanche. Troppo rispondenti ad una realtà che deve essere camuffata da una narrazione più soft. E così, vai con l’invenzione di terminologie che se non ci trovassimo di fronte ad una apocalisse umanitaria, porterebbero a considerazioni ironiche.
La semantica come arma di distrazione di massa
Una riprova? Eccola. Una parte degli 1,4 milioni di sfollati palestinesi a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, potrebbe essere spostata verso «isole umanitarie» per consentire l’invasione delle Forze di difesa di Israele (Idf) sulla città meridionale. Lo ha annunciato il portavoce delle Idf, Daniel Hagari, secondo quanto riferito dal quotidiano Times of Israel, spiegando che il trasferimento degli sfollati verso queste aree non meglio precisate avverrebbe in coordinamento con altri soggetti internazionali. Secondo Hagari, nelle «isole umanitarie» saranno allestiti alloggi temporanei per i palestinesi evacuati e verranno forniti cibo e acqua. Non è noto quando dovrebbe iniziare il trasferimento degli sfollati, né quando Israele intenda avviare l’offensiva su Rafah, considerata una delle «ultime roccaforti» del movimento islamista palestinese Hamas.
“Isole umanitarie”. Sì, avete letto bene. La Striscia di Gaza è ridotta a un cumulo di macerie, luogo di sofferenza e di dolore come pochi altri, o forse nessuno, al mondo. I morti sono oltre 31 mila, la stragrande maggioranza dei quali sono donne, adolescenti, bambini (25mila stando al Pentagono). Gaza è un inferno in terra. E Israele s’inventa le “isole umanitarie”!!!! Ovviamente, il solerte portavoce dell’Idf, l’immaginifico contrammiraglio Hagari, si guarda bene di specificare di cosa diavolo si tratti. Dove sarebbero queste “isole”? Nel deserto del Sinai? O in un qualche paese africano? E la popolazione di Gaza quanto dovrebbe stare su queste “isole”? Mesi, anni. All’infinito? E chi non se ne vuole andare che fine farebbe? Sarebbe considerato un sodale di Hamas e come tale trattato?
Una cosa è certa. L’invasione di Rafah si farà. Alla faccia di Biden dei tremebondi leader europei. Parola di Benjamin Netanyahu. Entreremo a Rafah», nel sud della Striscia di Gaza dove si sono rifugiati i palestinesi fuggiti da altre aree dell’enclave palestinese, «e completeremo la nostra missione di eliminare Hamas», respingendo le «pressioni internazionali». Si è espresso così il primo ministro israeliano in dichiarazioni durante un incontro con i soldati di cui dà notizia il Jerusalem Post. Netanyahu ha ribadito l’obiettivo di «ripristinare la sicurezza per il popolo di Israele» e arrivare alla «vittoria totale» nell’ambito delle operazioni militari avviate nella Striscia dopo l’attacco del 7 ottobre in Israele. E il premier ha assicurato che «respingerà le pressioni internazionali» su Rafah. «Mentre le forze israeliane (Idf) si preparano a continuare a combattere a Rafah, facciamo i conti con pressioni internazionali volte a impedirci di entrare nell’area e concludere il lavoro. In quanto premier di Israele, respingerò queste pressioni», ha detto.
Di “isole umanitarie” manco un accenno. Quell’azzardo semantico serve all’esterno. Per l’interno, l’opinione pubblica israeliana, sono altri i messaggi che devono passare. Messaggi che definire bellicisti è peccare di indulgenza.
E gli ostaggi ancora in mano ad Hamas (e alla Jihad islamica)? A sì, ci sono pure loro, ma sono un problema secondario.
Resta la tragedia di Gaza. Raccontata in tutta la sua dimensione efferata da un Rapporto reso pubblico nei giorni scorsi da Save The Children.
Infanzia cancellata
Cinque mesi di violenza, sfollamento, malnutrizione e malattie, che si aggiungono agli oltre 16 anni di blocco, hanno avuto un impatto psicologico devastante sui bambini di Gaza. Paura, ansia, carenza di cibo, enuresi, iper-vigilanza e problemi di sonno, un’alternanza nello stile di attaccamento ai genitori, regressione e aggressività: questo l’universo quotidiano dei bambini che stanno vivendo il conflitto, come attesta una ricerca diffusa da Save the Children, l’Organizzazione che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro. Genitori e care giver hanno dichiarato all’Organizzazione che la capacità dei bambini di immaginare un futuro senza guerra è ormai praticamente scomparsa. Il disagio emotivo di schivare bombe e proiettili, la paura di perdere i propri cari, di essere costretti a fuggire attraverso strade disseminate di detriti e cadaveri e di svegliarsi ogni mattina senza sapere se riusciranno a mangiare, ha reso gli adulti di riferimento sempre più incapaci di affrontare la situazione. Il sostegno, i servizi e gli strumenti di cui hanno bisogno per prendersi cura dei loro figli sono sempre meno. Dalia*, una madre di Gaza, ha dichiarato: “I nostri figli hanno già vissuto diverse guerre. Avevano già una scarsa capacità di recupero e ora è molto difficile affrontare queste ulteriori difficoltà. I bambini sono spaventati, arrabbiati e non riescono a smettere di piangere, questo succede anche a molti adulti. È troppo per noi, figuriamoci per i più piccoli”.
Nella ricerca – che integra quella condotta da Save the Children del 2022 sul grave impatto sulla salute mentale dei bambini causato da oltre 16 anni di blocco imposto dal governo israeliano – gli esperti di salute mentale e di protezione dell’infanzia che lavorano con Save the Children a Gaza affermano che senza un’azione urgente, a partire da un cessate il fuoco immediato e definitivo e da un accesso umanitario sicuro e senza restrizioni, la guerra infliggerà ulteriori danni mentali a bambini, bambine e adolescenti, che permarranno per tutta la vita, con una drastica riduzione delle opportunità di recupero.
I genitori raccontano che i bambini hanno rinunciato anche alla speranza e alle loro ambizioni per il futuro. “Uno dei miei figli sognava di diventare ingegnere e l’altro poliziotto. Ora uno vuole guidare un carretto trainato da un asino, perché vede questa realtà […]. E il sogno dell’altro figlio è vendere biscotti davanti a casa”, ha raccontato Samer*.
A Gaza, il 90% di tutti gli edifici scolastici ha subito danni significativi e altri non possono più essere utilizzati come scuole. L’istruzione può dare un senso di speranza, ma a causa del conflitto in corso più di 625 mila studenti non vanno più a scuola, e 22.564 insegnanti sono impossibilitati a fare il loro lavoro.
Amal*, madre di quattro figli a Gaza tra i 7 e i 14 anni, ha detto: “Alcuni dei miei figli non riescono più a concentrarsi sulle attività di base. Dimenticano subito ciò che dico loro e non riescono a ricordare le cose appena accadute. Non direi nemmeno che la loro salute mentale è peggiorata, è stata proprio cancellata. Una completa distruzione psicologica”.
Tutto questo avviene mentre secondo il Ministero della Sanità di Gaza più di 30.717 persone, tra cui 12.550 bambini, sono state uccise dall’escalation militare israeliana a Gaza iniziata il 7 ottobre come rappresaglia agli attacchi contro Israele, che hanno ucciso 1200 persone, tra cui 33 bambini, e preso più di 240 ostaggi, secondo il governo di Israele.
La mancanza di cibo e di acqua potabile sta creando una grave crisi alimentare, con quasi tutti i bambini di Gaza a rischio di carestia. Almeno 15 bambini sono morti per malnutrizione e disidratazione nel nord di Gaza, secondo il Ministero della Sanità di Gaza. Con le strutture sanitarie a malapena funzionanti e le famiglie tagliate fuori dai servizi medici, è probabile che la cifra reale sia molto più alta – e tutto ciò sta facendo aumentare in modo esponenziale l’ansia e lo stress nei bambini e nelle famiglie.
Anche prima del 7 ottobre, la salute mentale dei bambini di Gaza era precaria a causa delle cicliche escalation di violenza, dell’impatto del blocco – comprese le restrizioni alla libertà di movimento e all’accesso ai servizi essenziali – della crisi economica e della separazione da familiari e amici.
Gli intervistati hanno dichiarato di aver assistito a un drammatico deterioramento della salute mentale dei bambini, peggiore rispetto alle precedenti escalation di violenza, che si manifesta con paura, ansia, carenza di cibo, enuresi, iper-vigilanza e problemi di sonno, oltre a cambiamenti nei comportamenti come un’alternanza nello stile di attaccamento ai genitori, regressione e aggressività. “I bambini qui hanno visto tutto. Le bombe, i morti, i cadaveri: non possiamo più fingere con loro. Ora capiscono e hanno visto tutto. Mio figlio sa persino distinguere i tipi di esplosivo che cadono: riesce a percepire la differenza”, ha raccontato Waseem*.
Ecco le parole di Lana*, una bambina di 11 anni di Rafah, che sta vivendo gli orrori di questa violenza nel sud di Gaza: “La guerra ci ha colpito molto. Abbiamo dovuto lasciare le nostre case e non potevamo fare nulla. Abbiamo imparato molte cose durante la guerra, come l’importanza di risparmiare l’acqua. Spero che la guerra finisca e che si possa vivere in pace e in sicurezza”.
Mentre i bisogni umanitari aumentano, l’ultima escalation di violenza e l’assedio hanno causato un collasso totale dei servizi di salute mentale a Gaza, con i sei centri pubblici dedicati e l’unico ospedale psichiatrico di Gaza non più funzionante.
(*I nomi sono stati cambiati per proteggere l’identità degli intervistati).
A Gaza viene ucciso un bambino ogni dieci minuti, ricorda l’Oms. I bambini malnutriti hanno un rischio di morte 11 volte superiore di quelli ben nutriti, a causa di polmonite e diarrea (che peggiora il quadro della malnutrizione), i cui casi sotto i 5 anni sono aumentati di circa il 2.000% dal 7 ottobre secondo l’Unicef. “La nostra situazione è pura miseria. Sono sopraffatto. Mio figlio è molto malato. Ho detto a mia moglie che dobbiamo abbassare le aspettative. Tutto ciò che abbiamo è la speranza. Non so se ce la faremo. Per favore, ditelo al mondo”, dice un padre disperato a James Elder, portavoce dell’Unicef.
I bimbi di Gaza affollerebbero le “isole umanitarie”? Anche le parole sono violenza allo stato puro, quando vengono usate dall’aggressore per mascherare i propri intenti, che di “umanitario” non hanno nulla. Ma tanto, proprio tanto, di criminale.