di Rock Reynolds
Il Brasile è una nazione enorme, con una superficie che è quasi 30 volte quella dell’Italia. Unico stato del continente americano in cui la lingua nazionale non sia l’inglese, lo spagnolo o il francese, essendo stato colonizzato a partire dall’anno 1500 dai portoghesi, ospita una larga fetta del polmone verde del pianeta, la Foresta Amazzonica, oggetto di sfruttamento da parte dei ricchi del paese così come di svariati potentati internazionali. Le sorti di tale foresta sono una metafora sempre più preoccupante dello stato del globo, con una crescente riduzione degli spazi verdi in favore di un’agricoltura poco lungimirante e di un’industria mineraria senza coscienza. Con i suoi quasi 220 milioni di abitanti, il Brasile aspira a essere una delle più grandi democrazie del mondo, eppure manifesta tuttora i sintomi del peggior post-colonialismo, con una classe dirigente corrotta e una sperequazione esagerata e crescente tra chi ha tanto e chi non ha niente. Non è certo un caso che la condanna al carcere e la susseguente detenzione del suo attuale presidente, Lula, e le pagliacciate autarchiche in stile Donald Trump dell’ex-presidente, Bolsonaro, con i suoi pesanti guai legali, abbiano caratterizzato la politica del paese negli ultimi anni.
Paradiso dei turisti e sogno di diverse generazioni di europei che ne hanno fatto la meta tropicale d’elezione, il Brasile ha nelle arti una valvola di sfogo virtuosissima e, dunque, si presta a fare da sfondo a grandi arazzi letterari.
Stavolta, racconto una piccolissima porzione del suo universo attraverso due libri molto diversi tra loro, ciascuno a suo modo interessante.
Sulle strade di mio padre (Iperborea, traduzione di Vincenzo Barca, pagg 179, euro 18) di José Henrique Bortoluci, un nome di chiare origini italiane, è in parte saggio e in parte memoir. Attraverso i ricordi e i racconti del padre malato – un ex-camionista ora in pensione – che ha svolto con passione e pure con ineluttabilità la sua professione in anni quasi pionieristici in cui un viaggio in camion per andare a portare un carico e ritirarne un altro era un’avventura quasi lunare, con strade in via di costruzione e percorsi irti di ostacoli imprevedibili, Bortoluci descrive un mondo che sta per scomparire. Galleggiando con grazia tra un tono affettuosamente lirico e un’atmosfera prosaica figlia della dura condizione di malato oncologico del padre e pure della constatazione di un paese ormai in disfacimento, Bortoluci traccia un quadro che, seppur incompleto, aiuta a capire elementi di quella terra lontana che noi europei – che quella terra l’abbiamo fatta e soprattutto disfatta – percepiamo come idiosincrasie e stravaganze. «Le parole sono strade» ci ricorda l’autore. «Con le parole tracciamo i contorni del nostro vissuto, uniamo i punti tra il presente e un passato che non possiamo più raggiungere… Le parole erano i regali che mio padre portava con il suo camion quando ero piccolo.» Parole che narrano di un paese preda di una devastazione che soffoca il popolo, «un macabro esperimento politico del grande male che spalanca le sue fauci su una pila di morti ormai incalcolabili». Bortoluci non indugia di fronte alle cause di tale disastro, che addita con forza, per esempio quando dice che è un «male collettivo… avvenuto nell’ottobre del 2018, quando a occupare la carica più alta della Repubblica è stata scelta l’incarnazione stessa della nostra barbarie». Bizzarro che, quasi ad anticipare il disastro, ci fosse stato il peggior sciopero dei camionisti nella storia brasiliana, a cui il padre dell’autore aveva assistito attonito, quasi incredulo, perché mai lui si era fermato, animato da slanci quasi messianici, per foraggiare la costruzione di strade e ferrovie, cattedrali non nel deserto ma nella foresta pluviale, progetti di grandeur nazionale in parte concepiti come “panem et circense” di un intero paese. Perché i camionisti erano da sempre una categoria «senza diritti né garanzie» che aspiravano a diventare padroncini, un’illusione destinata quasi sempre al fallimento. D’altro canto, lo stesso influsso di immigrati bianchi e poveri dall’Europa era stato «un’abile manovra organizzata dalle élite brasiliane per sostituire la manodopera costituita dagli schiavi neri e promuovere una politica di sbiancamento che mantenesse nel paese una rigida gerarchia razziale»: un progetto di architettura sociopolitica che pare abbia tristemente avuto effetto, relegando a cittadini di serie B i soggetti dalla pelle più scura e facendo quasi del tutto sparire gli indios, in quello che fu un genocidio non molto diverso dalla pulizia etnica operata dai coloni bianchi degli Stati Uniti ai danni dei nativi. Ecco perché il nonno di Bortoluci, che aveva sposato una donna meticcia, si era macchiato di una colpa che lo avrebbe perseguitato in eterno. Il racconto di Bortoluci alterna momenti ilari trasmessigli dal padre ad analisi fosche della situazione politica e a riflessioni tristi sulla caducità umana, nella quotidianità della malattia del genitore.
Ben diverso è l’approccio di Micheliny Verunschk che opta per la forma romanzo, descrivendo le difficoltà nell’amministrazione di un paese così grande, con zone davvero remote in cui sacro e profano si mischiano senza soluzione di continuità e in cui i centri del potere politico, economico e religioso si spartiscono ogni cosa e al popolo non restano che le briciole.
Resta solo il fuoco (66THAND2ND, traduzione di Dea Merlini, pagg 137, euro 16) ha al centro la vicenda di una macabra esecuzione, la messa al rogo della giovane Celeste, arsa viva da madre e fratello in una lontana comunità rurale perché ritenuta sulla cattiva strada. La superstizione anima ancor oggi rituali sincretici che sanno di magia nera tribale, ma c’è qualcosa di davvero anomalo in questa specie di esorcismo che si prefigge di restituire al mondo una giovane peccatrice, purificandola delle sue colpe. Bilanciandosi tra i diversi punti di vista dei protagonisti – tra cui spicca quello del medico legale – Micheliny Verunschk pare più interessata a restituirci un’immagine credibile di un universo composito, sfumato come quello della società brasiliana moderna, con un piede nel futuro e uno saldamente piantato nella tradizione e nei rituali magici, che a ricostruire un meccanismo di indagine vero e proprio. Resta solo il fuoco Micheliny Verunschk discende da una stirpe di romanzieri che nell’America Latina ha fatto fortuna con il cosiddetto “realismo magico”. E un che di sognante lo mostra con fierezza.
Ma non c’è solo magia, ovviamente. La durezza della realtà quotidiana emerge attraverso la descrizione della cruda vita della frontiera e delle bassezze del saccheggio e della speculazione, con il mantenimento di livelli infimi di istruzione che sono terreno fertile per superstizione e deformazioni del pensiero lucido e che portano facilmente pure alla devastazione di un territorio e di una natura essenziali per la vita del mondo intero.
Se c’è una cosa che lega idealmente la Micheliny a Bortoluci è la scarsa propensione all’attenuazione dei toni. La realtà è ben più disgraziata di qualsiasi finzione letteraria e, dunque, l’analisi della condizione femminile non può e non deve indorare nessuna pillola. «Perché solo le figlie femmine possono diventare puttane. E nessuno vuole una figlia perduta. Le pecore smarrite, se si allontanano dal cammino di Dio, se le porta via il diavolo. Verso la perdizione. Verso l’abisso del mondo. Glielo aveva insegnato il prete al catechismo.»