Migranti ambientali crescono: i numeri di una tragedia di cui si parla poco
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Migranti ambientali crescono: i numeri di una tragedia di cui si parla poco

Tra le cause principali degli esodi di massa ci sono i disastri ambientali. In prospettiva, i migranti ambientali saranno di più, concordano analisti e demografi, di quelli di guerra.

Migranti ambientali crescono: i numeri di una tragedia di cui si parla poco
Migranti climatici
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

20 Giugno 2024 - 19.02


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Quando si pensa alle cause che sono alla base della crescita dell’”esercito” dei rifugiati (oltre 114 milioni stando all’ulto rapporto Unhcr) il pensiero va alle guerre che insanguinato il mondo. Ma tra le cause principali degli esodi di massa ci sono i disastri ambientali. In prospettiva, i migranti ambientali saranno di più, concordano analisti e demografi, di quelli di guerra.

A darne conto, con la consueta puntualità e accuratezza documentale, è Oxfam.

Nei 10 dei Paesi più colpiti al mondo dall’alternarsi di inondazioni e siccità sempre più frequenti e devastanti, il numero di sfollati è più che raddoppiato nell’ultimo decennio. Solo nel 2023 centinaia di migliaia di persone sono state costrette a fuggire 8 milioni di volte dalle proprie case per mettersi in salvo.

É l’allarme lanciato oggi da Oxfam, con una nuova analisi diffusa in occasione della Giornata mondiale del rifugiato.

Un quadro allarmante

Gli Stati più colpiti l’anno scorso sono stati Somalia, Cina, Filippine, Pakistan, Kenya, Etiopia, India, Brasile, Bangladesh e Malesia, con una crescita esponenziale del numero di persone costrette a lasciare le proprie case anche più volte a causa di disastri climatici: da3,5 milioni nel 2013 a 7,9 milioni nel 2023, ossia il 120% in più rispetto a 10 anni fa (secondo i dati del Global Internal Displacement Database).

 Nello stesso periodo in questi 10 Paesi si assiste alla crescita delle aree colpite da siccità e inondazioni sempre più frequenti, passate da appena 24 nel 2013 a 656 lo scorso anno: la sola Somalia, ad esempio, è stata colpita da 223 diversi eventi metereologici estremi l’anno scorso, mentre 10 anni fa erano stati solo 2; le Filippine 74 volte contro 3; il Brasile 79 contro 4; la Malesia 127 contro 1. 

Oxfam ha calcolato inoltre che in 5 di questi Paesi, meno preparati ad affrontare l’impatto dei cambiamenti climatici – ossia Bangladesh, Etiopia, Kenya, Pakistan e Somalia – il numero di persone colpite da malnutrizione acuta è quasi triplicato passando da 14 milioni nel 2013 a oltre 55 milioni nel 2023.

“Come ci dicono i dati Unhcr nel 2023 abbiamo toccato la cifra record di 120 milioni di rifugiati nel mondo, dovuti prevalentemente ai cambiamenti climatici, che spesso si sommano a guerre e povertà. – rimarca Francesco Petrelli, policy advisor sulla sicurezza alimentare di Oxfam Italia- A subire le conseguenze più tragiche dei cambiamenti climatici sono purtroppo quelle stesse comunità che non ne hanno responsabilità: dalle decine di morti a causa dal caldo torrido in Bangladesh, alle migliaia di persone costrette a fuggire dalle inondazioni in Pakistan. Mentre i Paesi più ricchi, che inquinano di più, continuano a fare troppo poco per sostenerle. I cambiamenti climatici stanno alterando i normali modelli metereologici di fenomeni come El Niño e La Niña, aumentando siccità, inondazioni e cicloni. La conseguenza è la perdita di qualsiasi mezzo di sussistenza soprattutto in Paesi poverissimi e attraversati da conflitti, con milioni di persone che ridotte alla fame e senza fonti d’acqua pulita disponibili, sono costrette a migrazioni continue”.

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In Somalia, ad esempio, il costante aumento delle temperature ha portato negli ultimi anni a siccità sempre più frequenti e prolungate, spesso seguite da inondazioni improvvise e cicloni. Nonostante il Paese sia responsabile di meno dello 0,03% delle emissioni globali di Co2, ha subito danni per miliardi di dollari, a causa dei disastri climatici. Solo le inondazioni dello scorso dicembre, dopo 5 anni di siccità ininterrotta, hanno causato perdite stimate in 230 milioni di dollari, oltre a 1,2 milioni di sfollati e 118 vittime. Una catastrofe che è andata a sommarsi alla guerra e ha moltiplicato gli effetti della crisi economica: il risultato è che oggi metà della popolazione dipende dagli aiuti umanitari per sopravvivere.

“Tutti i miei animali sono morti a causa della siccità. Così sono stato costretto a viaggiare per tre giorni assieme ai miei figli, senza acqua e cibo. Alcuni di loro si sono ammalati per questo”, racconta Hassan Mohamed, che oggi è costretto a vivere da sfollato a Baidoa, città a nord-ovest di Mogadiscio.

In Bangladesh, cicloni imprevedibili e altri eventi estremi hanno costretto l’anno scorso oltre 1,8 milioni di persone ad abbandonare le proprie case, provocando gravi danni a infrastrutture essenziali, come scuole e mercati. Il Paese però contribuisce appena allo 0,56% delle emissioni globali di CO2. 

“Abbiamo perso la casa quattro volte a causa dei cicloni e oggi siamo indebitati perché abbiamo dovuto fare un mutuo ricomprarla. Nostro figlio è l’unico a guadagnare, ma fatica a trovare un lavoro nella zona”, raccontano Asgor Kha e Moriom, che vivono nel villaggio di Lebubunia a Satkhira.

Senza raccolto né reddito tante famiglie in Bangladesh si sono dovute trasferire, anche più di una volta. Chi non lo ha fatto vive nella costante paura del futuro per i ripetuti disastri subiti.

“Sarà possibile porre fine a queste immani sofferenze solo se si affronterà radicalmente l’ingiustizia climatica globale. – conclude Petrelli – I paesi ricchi e più inquinanti devono ridurre le emissioni e onorare gli impegni di finanziamento nei confronti dei paesi più colpiti dalla crisi climatica, in modo che le comunità possano adattarsi e ricostruire la propria vita dopo gli shock climatici. Risarcendo inoltre i danni che hanno contribuito a causare e consentendo così, alle nazioni più povere e colpite di sviluppare sistemi di allerta rapida ed efficace o altre misure di preparazione per mitigare gli effetti del cambiamento climatico”.

La denuncia di ActionAid

“Il cambiamento climatico ci ha già colpito negativamente e il peggio è probabile che debba ancora venire. [Uomo, 41 anni. Gunjur, Gambia] 

Che rapporto c’è tra crisi climatica e migrazioni? Da questa domanda parte la nuova ricerca di ActionAid Il cambiamento climatico non conosce frontiere”, che analizza gli aspetti giuridici, normativi della mobilità umana legata ai disastri naturali, al degrado ambientale e al clima che cambia, grazie a una indagine in Gambia, uno dei paesi africani dove la migrazione interna e internazionale è più forte e la crisi climatica mostra i suoi segni attraverso siccità, desertificazione, salinizzazione ed erosione del suolo. Un’analisi che mette in luce come Unione Europea e Italia non riconosca la necessità di garantire maggiore protezione a chi si sposta e si sposterà per fuggire da luoghi divenuti invivibili.  

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Clima e migrazione interna, transfrontaliera e immobilità

La crisi climatica è uno dei fattori di vulnerabilità che influenza le decisioni migratorie di milioni di persone del pianeta: movimenti dalle campagne ai centri urbani, spostamenti interni ai paesi, fino alle migrazioni internazionali. Un fattore destinato a contare sempre di più con l’inasprirsi dell’impatto degli eventi ambientali estremi improvvisi e progressivi. Siccità, ondate di calore, inondazioni e tempeste stanno causando devastanti conseguenze sociali ed economiche, costringendo la metà della popolazione mondiale a fronteggiare difficoltà nell’accesso all’acqua, riduzioni della produttività agricola e il deterioramento e l’erosione dei mezzi di sussistenza. Se i fattori ambientali sono identificati come minacce o “moltiplicatori di vulnerabilità”, capaci di esacerbare condizioni di iniquità preesistenti, come si decide di migrare o restare? Nella ricerca ActionAid mostra come le disuguaglianze e le dinamiche di potere esistenti svolgono un ruolo determinante nel risultato del percorso migratorio, influenzandone la destinazione, la durata e le condizioni.

“La governance internazionale delle migrazioni attuale è il risultato di profonde disuguaglianze economiche e sociali. In questo contesto, gli interessi degli stati prevalgono sui diritti umani, con un’agenda incentrata sul paradigma della deterrenza e sull’esternalizzazione delle frontiere. La risposta alle migrazioni climatiche risente di questo approccio, focalizzandosi esclusivamente sulla dimensione esterna che promuovere l’adattamento in situ, trascurando l’ampliamento della protezione legale interna come efficace intervento a sostengo della migrazione come forma adattamento ai cambiamenti climatici” spiega Roberto Sensi, Policy Advisor Global Inequality ActionAid Italia. 

Le politiche di Europa e Italia verso i migranti climatici

Oggi non esiste una protezione umanitaria stabilita dal quadro giuridico europeo per i migranti climatici. L’Unione Europea sotto la presidenza di Ursula von der Leyen ha creato frammentazione e separazione delle politiche di risposta distinguendo nettamente le iniziative del Green Deal Europeo dalla governance della migrazione e dell’asilo attraverso il Nuovo Patto sulla Migrazione e sull’Asilo, inspirato dal paradigma della deterrenza. Il Patto menziona il cambiamento climatico tra le maggiori sfide globali che caratterizzano il presente e il futuro dei flussi migratori, senza tuttavia adottare impegni concreti in tal senso. La sua definitiva messa in atto consoliderà però di fatto le tendenze escludenti e selettive sperimentate su scala europea e nazionale negli ultimi dieci anni. Attraverso l’adozione uniforme sul territorio degli Stati membri dell’approccio hotspot e dell’esternalizzazione delle frontiere il rischio concreto è quello di un sostanziale svuotamento del diritto d’asilo. Attualmente la protezione per coloro che sono costretti a fuggire a causa di fattori climatici ed ambientali è affidata alla competenza nazionale. In Italia, nonostante le modifiche alle norme sul diritto d’asilo apportate dal 2018 in poi con il susseguirsi di Governi di colori e composizioni diversi, la protezione temporanea – che fornisce protezione collettiva e temporanea “per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea”- viene affiancata proprio nel 2018 da uno strumento specifico e individuale, il Permesso di soggiorno per calamità, che da protezione a chi fugge per cause climatico-ambientali di migrazione. Il Governo Meloni elimina la possibilità di convertire in permesso di soggiorno per motivi di lavoro quello ottenuto per calamitàe limita le possibilità di rinnovo, garantendo un livello minimo di protezione e non lascia spazio per una maggiore permanenza del beneficiario sul territorio nazionale. Nelle raccomandazioni del report ActionAid chiede al Governo italiano di rafforzare e ampliare questo strumento per dare protezione ampia a chi arriva in Italia per motivazioni legate a disastri e crisi climatica.  

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Il caso Gambia e l’adattamento

Secondo la ricerca condotta in Gambia, che ha condotto interviste con 128 persone tra migranti di ritorno e rimpatriati, migranti interni e residenti in aree rurali colpite dai cambiamenti climatici, la mobilità climatica è un fenomeno complesso e sfaccettato. Spostarsi sia verso i centri urbani che verso l’Europa è una scelta guidata da motivi economici, da aspirazioni e per sfuggire alla povertà; per migliorare le proprie vite e sostenere sé stessi e la famiglia. I cambiamenti climatici non sono sempre direttamente riconosciuti come centrali nelle decisioni consapevoli di chi vuole migrare, ma hanno un forte impatto sulle condizioni di vita delle persone nelle aeree rurali, dove è chiaro che già oggi stanno rendendo la sopravvivenza e l’agricoltura sempre più a rischio, anche e soprattutto per chi decide di non partire perché non può o non vuole. 

Si lavora molto duramente nelle fattorie durante la stagione delle piogge, ma poi non si ottiene abbastanza raccolto. Le piogge sono insufficienti o arrivano tardi e distruggono i raccolti. Abbiamo anche raccolto soldi in famiglia e abbiamo comprato un cavallo, ma è morto dopo una stagione delle piogge. Non possiamo permetterci di affittare un trattore o comprare fertilizzanti e piantine. Quindi, abbiamo smesso del tutto di coltivare. [Uomo 28 anni. Jamaara, Gambia]. 

In Paesi come il Gambia, dove il 65% della popolazione vive nelle aree urbane e dove la povertà generalizzata, la disoccupazione, il declino del turismo e dell’agricoltura sono determinanti per la spinta alla migrazione, è necessario rafforzare le strategie di adattamento climatico e ambientale, sostenendo  coloro  che decidono di rimanere nel luogo di origine, ma, allo stesso tempo, proteggere e supportare chi decide o è costretto a spostarsi verso i centri urbani o al di fuori del Paese, massimizzando così il potenziale della migrazione come strategia di adattamento. 

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