C’è una domanda che sale prepotente da tutte le strade di Damasco e dintorni: dove sono i patriarchi siriani? Tutto ciò che emerge dai centri di tortura, distruzione e morte diffusi nella loro Siria non li riguarda? Non sarebbe il caso che pronunciassero un “mea culpa” per i 54 anni di silenzio su questa indicibile vergogna per l’intera umanità? Trovo solo dei loro generici appelli per una pacifica e non violenta transizione. Un po’ poco.
Ma ricordare che il fondatore della dinastia degli Assad, Hafez al Assad, si è avvalso della consulenza del famigerato gerarca nazista Alois Brunner e vederne ora il prodotto non imporrebbe un atto di contrizione e di assunzione di responsabilità? In questo mezzo secolo la Siria ha visto calpestati uomini, anziani, donne, bambini, vecchie, contadini, giovani, professionisti, tutti distrutti nel corpo e nell’animo. Dov’è il conforto per loro da parte dei così numerosi patriarchi cristiani? C’è stata una parola per le vittime di un regime che in qualche caso loro hanno anche apprezzato? E’ possibile, è ammissibile questo silenzio?
Alcuni prelati hanno espresso il giusto timore per il futuro di quelle comunità, e per il rischio, in ipotesi, che qualcuno possa essere tentato di introdurre la legge islamica. Il vescovo latino di Aleppo, ha fatto molto meglio, ha ricordato che proprio gli islamisti negli ultimi anni di governo a Idlib non lo hanno fatto. Questa è visione, responsabilità che costruisce.
Ma resta il fatto che una parola sul rapporto tra Chiese di Siria e regime di Assad si impone. Va detta nel nome della verità e per recuperare un rapporto con chi è stato seviziato da un regime senza limiti, senza confini di disumanità.
Non semplici preti, non semplici sacerdoti, non ordinari cristiani, vittime anche loro come tutti sanno di questo regime, devono parlare. In un’ora così solenne devono parlare loro, i patriarchi. E’ del tutto evidente che sono loro, tutti insieme possibilmente, a dover squarciare il velo e spiegare. Difficile non farlo partendo discorso di lode pronunciato da un vescovo melchita quando fu eletto presidente Bashar al Assad (in quanto figlio di suo padre una novità per le Repubbliche se si toglie l’esempio nord-coreano). Lo stesso vale per le parole pronunciate nel 2011 dal suo patriarca pochi giorni dopo l’inizio delle grandi manifestazioni di protesta contro il regime e poi represse nel sangue dei disarmati: “Assad ha parlato in pubblico ieri e c’è stata una dimostrazione di tutto il Paese a favore de Presidente. […] Sono testimone di molte iniziative positive intraprese dal regine in questi anni. Il Paese si sta sviluppando”. Di lì a breve inviò una lettera ai leader europei sostenendo che il suo paese non era pronto per una “democrazia all’europea”. Va ricordato anche l’assassinio di un cristiano, Basel Shehadeh, del quale il regime impedì i funerali, sparando anche sui cristiani accorsi a pregare per lui. Difficile non convenire con il professor Bernanrd Heyberger, dell’Ecole des Hautes Etudes en Scienses Sociales di Parigi per il quale “le Chiese si sono strutturate su un sistema autoritario”.
Ci sono giustificazioni possibili a certi livelli, per esempio dei parroci che sapevano che senza il benestare dei servizi segreti non sarebbero stati in grado neanche di riparare un muretto parrocchiale, o che difendere un loro parrocchiano richiedeva compromettersi, tutto questo si sa. Ma se si vuole tutelare la Siria da possibili scenari inquietanti è indispensabile che i patriarchi dicano “mea culpa” per un silenzio durato 54 anni e interrotto solo da qualche cenno di assenso con Assad.
Ricostruire la Siria vuol dire anche ricostruire l’unità nella diversità dei siriani. Il cristianesimo oggi può fare molto per questo, ma soprattutto ridefinendo se stesso e il suo rapporto con il potere, passato e futuro, libero da sottomissioni. Chiarire il passato dà credibilità al ruolo futuro, se lo si intende avere; e sarebbe importante, molto importante.