Gaza, l'ultimo cimitero dei giornalisti
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Gaza, l'ultimo cimitero dei giornalisti

È Gaza l’ultimo cimitero dei giornalisti, il mattatoio dell’informazione di questo 2024

Gaza, l'ultimo cimitero dei giornalisti
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

29 Dicembre 2024 - 17.29


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Giustamente, lo riscriviamo in maiuscolo, GIUSTAMENTE, le prime pagine dei giornali riportano la vicenda di una giornalista coraggiosa, che fa onore alla nostra tanto, e spesso a ragione, vituperata categoria. In Iran Cecilia Sala cecava di raccontare un Paese che ama, che conosce come pochi altri. Giornalista libera, con la schiena dritta. Per questo invisa dal regime teocratico-militare iraniano. Free Cecilia, Subito, è un impegno da ottemperare, innanzitutto da chi ha responsabilità di Governo. 

Ma i giornalisti non sono invisi solo nei Paesi retti da regimi marcatamente autoritari. I giornalisti, quelli davvero indipendenti, sono testimoni scomodi, da neutralizzare, anche in Paesi che la nostrana stampa mainstream continua a narrare come l’”unica democrazia in Medio Oriente”, cioè Israele.

Testimoni scomodi

Globalist ne ha scritto a più riprese. Stavolta, ci fanno conforto un report molto documentato e un appello da sostenere. 

Scrive Daniele Mastrogiacomo su Professione Reporter: “È Gaza l’ultimo cimitero dei giornalisti, il mattatoio dell’informazione di questo 2024. Dati non confermati, per l’impossibilità di renderli affidabili, sostengono che ben 202 corrispondenti, cronisti, inviati, fotografi, reporter, blogger, produttori, fixer, stringer, semplici cittadini armati di cellulare che in questi 14 mesi hanno trasmesso al mondo quanto accadeva in quella Striscia di terra trasformata in un inferno, hanno pagato con la vita il loro lavoro. Uccisi dalle bombe sganciate dai jet israeliani, dai colpi sparati dai Merkava con la Stella di David, dai cecchini piazzati su tetti dei palazzi sventrati, dai droni che ronzavano alla ricerca dei miliziani di Hamas o della Jihad islamica.

Vittime collaterali, bersagli involontari o voluti. Sarà arduo, un giorno, stabilire se siano caduti sotto il fuoco dell’Idf per sbaglio -come sostiene sempre Israele- nella ricerca di potenziali terroristi, o se siano finiti nel mirino dei proiettili perché raccontavano l’orrore in atto.

Parlare di loro, dei giornalisti, e di quanti sono caduti mentre salvaguardavano un diritto inalienabile, quello di testimoniare la realtà, sembra davvero riduttivo rispetto alla strage, un vero sterminio, subita dalla popolazione. Il ministero della Salute di Gaza indica 45.399 morti civili, di cui quasi 15 mila bambini, al 26 dicembre 2024. Anche questa cifra viene contestata dal governo di Benjamin Netanyahu. La considerano di parte, di una fonte controllata da Hamas, se Hamas è in ancora in rado di controllare un territorio devastato, praticamente raso al suolo, e preda di bande criminali che assaltano e si accaparrano i pochi aiuti umanitari autorizzati a entrare nella Striscia. L’Onu si limita a circa 10 mila vittime. Ma spiega questa differenza con la diversa metodologia seguita. Per certificare il decesso di una persona ha bisogno di almeno due testimoni e di vedere il corpo, circostanze quasi sempre impossibili.

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Ma sui giornalisti la conta si basa su chi ha visto, conosceva, ha seppellito le vittime. Il Cpi, il Comitato per la difesa dei giornalisti con sede a New York, il 20 dicembre scorso ha fissato in 141 i colleghi morti nella Striscia. Sta indagando su altri 130 casi, ma ammette che molti sono difficili da documentare con i continui raid aerei, la carestia, lo sfollamento del 90 per cento della popolazione, costretta a vivere di stenti sotto tende fatte di brandelli di plastica e pezzi di stoffa, sulla spiaggia che costeggia i centri abitati. In mezzo al freddo pungente, giunto anche a quelle latitudini, che uccide quando non arrivano le bombe.

Mai, come in questo conflitto, sono morti tanti giornalisti. Nemmeno durante i due conflitti mondiali. “Da quando è iniziata la guerra a Gaza”, conferma Carlos Martinez de la Serna, direttore del Programma Cpi, “i nostri colleghi hanno pagato il prezzo più alto, la vita, per i loro reportage. Senza protezione, equipaggiamento, presenza internazionale, comunicazioni, cibo e acqua, continuano a svolgere il loro lavoro cruciale per dire al mondo la verità”.

Mai, come accade a Gaza, è stato vietato l’ingresso alla stampa internazionale, che dal 7 ottobre 2023, giorno della strage di Hamas nei kibbuz del sud di Israele, ancora oggi è costretta ad affidarsi alle notizie fornite dai colleghi che si trovano all’interno della Striscia. Un divieto imposto da Israele, su un territorio che non è il suo, sulla base di criteri di sicurezza che servono a tenere all’oscuro il mondo su quanto accade.

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È grazie ai giornalisti, operatori, fotografi e blogger palestinesi se abbiamo potuto vedere, non solo ascoltare o leggere, ma vedere con i nostri occhi il lento sterminio che sta avvenendo. Dietro ognuno di quei 202 operatori dell’informazione ci sono dei visi, dei nomi e delle storie. Ci vorrebbe un libro per raccontarle tutte. Qui possiamo solo ricordare quanto riporta il Cpj alla data del 20 dicembre 2024: 141 giornalisti e operatori dei media uccisi, di cui 133 palestinesi, due israeliani e sei libanesi. Feriti altri 49, due scomparsi, 75 arrestati. Senza considerare le aggressioni, le minacce, gli attacchi informatici, la censura, gli omicidi dei familiari, per ritorsione o vendetta.

A questo esercito di uomini e donne, che hanno tenuta alta l’attenzione sulla Striscia di Gaza a costo della vita, voglio dedicare la mia copertina della personalità dell’anno 2024. Con l’augurio e la speranza che anche loro un giorno possano avere giustizia”.

In un video messaggio, la giornalista Madlin Shaqaleh, 39 anni, ha dichiarato ad ActionAid: “La sfida più grande per noi è che abbiamo perso le nostre case e i nostri cari. Ho perso mia sorella e mia nipote e non ho potuto vederla né dirle addio. Questa è stata una grande sfida che mi ha fatto decidere di continuare la mia carriera giornalistica e di parlare della sofferenza dei giornalisti e della nostra sofferenza come cittadini e delle circostanze in cui viviamo, che sono davvero eccezionali. 

Le persone mi chiedono: perché continui ancora a lavorare? Ma io sento che, anche se un giorno mi aspetterà la morte, devo dar seguito al mio percorso, al messaggio, alla mia profonda fede e alla mia causa”.  

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Riham Jafari, coordinatrice delle attività di advocacy e comunicazione di ActionAid Palestina, ha dichiarato: “Se non fosse per l’eroismo e il coraggio dei giornalisti palestinesi che lavorano in condizioni incredibilmente pericolose e difficili, il mondo sarebbe quasi del tutto all’oscuro della terribile situazione a Gaza. Le autorità israeliane devono consentire ai reporter internazionali un accesso libero e senza restrizioni a Gaza e garantire la sicurezza a tutti i giornalisti. L’entità della crisi è schiacciante: è necessario un cessate il fuoco immediato e permanente, per porre fine alle uccisioni e consentire l’ingresso di aiuti nel territorio”.

Un appello da sostenere

È quello lanciato da Paola Caridi, giornalista, scrittrice, profonda conoscitrice della realtà d’Israele e della Palestina.

“Cinque giornalisti uccisi. In un soffio. In un solo attacco aereo mirato. Bruciati vivi nel pulmino che recava la scritta Press ben in vista. Stampa. Stampa che documenta il massacro, i massacri.

È stata superata quota 200. Oltre 200 giornalisti e operatori dell’informazione palestinesi uccisi a Gaza dalle forze armate israeliane dall’ottobre 2023. È una cifra in difetto, quota 200. Non comprende i familiari uccisi assieme ai giornalisti.

La giustizia verrà, anche per quello che è a tutti gli effetti un crimine di guerra. Nel frattempo, vorrei che si levasse alta e all’unisono la condanna da parte di tutti noi giornalisti. Alta, all’unisono, compatta: mai nella Storia sono stati uccisi così tanti giornalisti e giornaliste in un solo territorio, in così poco tempo. Mai.

Non è una richiesta corporativa. I giornalisti palestinesi sono i nostri occhi e la nostra voce. Testimoniano i fatti, documentano il genocidio in corso a Gaza. Ammazzarli significa tentare di coprire i crimini con il silenzio. La loro uccisione riguarda tutti.”

Hai ragione, Paola. Riguarda tutti. O almeno dovrebbe. Un appello che va sostenuto, rafforzato, con la stessa determinazione con cui oggi diciamo alto e forte Free Cecilia.

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