Libano verso un nuovo presidente: sfide militari, crisi politica e necessità di riforme urgenti
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Libano verso un nuovo presidente: sfide militari, crisi politica e necessità di riforme urgenti

E’ il giorno del nuovo presidente della Repubblica per il Libano. La seduta del Parlamento che deve eleggerlo è convocata per  questo 9 gennaio 2025

Libano verso un nuovo presidente: sfide militari, crisi politica e necessità di riforme urgenti
Michel Aoun presidente del Libano
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

9 Gennaio 2025 - 16.40


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E’ il giorno del nuovo presidente della Repubblica per il Libano. E secondo le previsioni il generale a capo delle forze armate Michel Aoun è stato eletto oggi a Beirut presidente dal parlamento

I suoi grandi elettori sono stati gli Stati Uniti, la Francia e l’Arabia Saudita, tutti impegnati fino all’ultimo momento in suo favore, con minacce e lusinghe, promesse. Si comincia con i fondi per la ricostruzione, che dovrebbero interessare in particolare chi lo avversa, cioè il duo sciita, Hezbollah e il suo fedele alleato, il partito del presidente del Parlamento Nabih Berri. 

Il dato che emerge evidente è che solo il capo dell’esercito assicura la comunità internazionale di riuscire a portare a termine la delicatissima fase bellica che si ha davanti. Il cessate il fuoco firmato con Israele il 27 novembre scorso comporta una serie di impegni da assolvere entro il 27 gennaio, poi, se il comitato di sorveglianza sul rispetto del cassate il fuoco darà il suo disco verde ci sarà l’effettiva cessazione delle ostilità. Ma progressi sul percorso del cessate il fuoco non si vedono proprio, né da una parte né dall’altra. Le violazioni dell’uno saranno anche causate dalle violazioni dell’altro, come entrambe le parti sostengono, ma chi ha più bisogno che il meccanismo proceda e vada in porto è il Libano.

Dunque l’attenzione di tutti è sull’effettivo disarmo di Hezbollah, che in base agli accordi vigenti deve distruggere tutti i sui depositi di armi e richiamare tutti i suoi miliziani da un’area profonda trenta chilometri, dal confine con Israele fino al fiume Litani. E’ l’esercito guidato da Joseph Aoun che deve riprendere il controllo del sud del Libano e assicurare, con l’Unifil, che Hezbollah non ci sia più, né sopra il suolo né nel sottosuolo, cioè nei suoi tunnel o bunker. Il tempo è poco e pochi in Libano non sono consapevoli di cosa significhi evitare brutte sorprese il 27 gennaio. 

La contrarietà di Hezbollah alla candidatura del generale non è chiaro da cosa derivi: per i più dal fermo sostegno alla sua candidatura da parte dei suoi giurati nemici, Stati Uniti e Arabia Saudita. Sulla carta ci sta, ma il vero motivo sembra un altro. Hezbollah, dicono alcuni, lo avrebbe votato o lo voterebbe se il generale per essere eletto avesse accettato o accettasse di convenire con loro il nome del futuro premier e la suddivisione dei dicasteri, compreso il numero dei ministri che toccherebbe al duo sciita. Una disposizione non abbastanza nota infatti prevede che in consiglio dei ministri un terzo dei ministri può bloccare ogni deliberazione. Si chiamo “terzo bloccante”, quello che Hezbollah vorrebbe, secondo alcuni. 

E’ una delle tante stranezze che vigono in Libano all’ombra di un sistema confessionale: costruito, pensato dopo la guerra civile per rasserenare tutte le comunità e assicurare che nessuno sarà più escluso, che nessuna comunità sarà messa ai margini, è diventato una giungla di codici e consuetudini che impedisce il funzionamento del Paese, un meccanismo paralizzante che ha consegnato lo Stato alle piccole o grandi mafie che hanno preso il controllo della rappresentazione politica del Paese. Il Libano è un Paese governato nel patto tra comunità, non da uno sistema democratico che riconoscendo a tutti uguali diritti crea una virtuosa dinamica tra maggioranza e opposizione. 

Questa assurda vicenda dell’elezione del Presidente della Repubblica lo ha dimostrato. Il Presidente precedente, per ironia della sorta un altro ex generale e un altro Aoun, Michel, è uscito dal palazzo presidenziale il 30 ottobre 2022. Da allora il Libano è senza la sua suprema magistratura, quindi con un governo che può gestire solo gli affari correnti. Eppure dal 2020, prima della guerra con Israele, il Paese è sprofondato nella più grave crisi economica certificata a livello mondiale. La valuta prima di allora era cambiata a 1500 lire libanesi per un dollaro, oggi ne servono 100mila per avere il famoso biglietto verde. Tutto questo non ha costretto il ceto politico  a provvedere subito a nominare il suo nuovo primo cittadino. Di più: dal 30 ottobre 2022 si è votato solo 13 volte. Ogni volta, incredibilmente, i due partiti sciiti dopo il primo scrutinio che vedeva il loro candidato soccombente, si ritiravano dalla scrutinio, per non far abbassare il quorum al successivo e arrivare all’elezione. E il Presidente delle Parlamento, loro esponente, lo consentiva, riconvocando la sessione non il giorno dopo, ma dopo mesi. Come a dire: o il nostro candidato o nessuno. 

Tutto questo non solo è stato consentito da tutti, ma si è pure trattato il cessate il fuoco proprio con lui. Il governo ne veniva a sapere qualcosa, ma per cortesia. 

E’, la quarta volta nella storia recente che il Libano si affida a un generale. E’ stato così con Lahoud, comandante in carica dell’esercito, con Suleiman , comandante in capo dell’esercito, con Michel Aoun, ex comandante dell’esercito poi mandato in esilio e tornato con i favori siriani, ora con Joseph Aoun.  In definitiva si può dire che il Libano si affida a generali eleggendoli, mentre le vecchie dittature dei “nazionalisti”, Libia, Siria, Egitto, Iraq, si affidavano a generali golpisti. La differenza c’è, enorme, l’emergenza c’è, enorme. Ma è un cambio di sistema e quindi di ceto politico quello di cui ha bisogno il Libano per tornare a essere quel che fu, cioè la vera alternativa araba al totalitarismo, “religioso” o “laico”.

L’emergenza bellica è evidente e ha imposto una risposta “contingente”, per la sua gravità. Ma le altre emergenze non sono da meno. Il Libano non ha saputo avviare neanche un’istruttoria sull’esplosione del suo porto commerciale, il 4 agosto 2020, per le pressioni di Hezbollah, che l’aveva causata. Quasi quasi ci sono andati di mezzo i magistrati che ci hanno provato. Di più: ha bloccato, illegalmente, i conti correnti in valuta pregiata di tutti i libanesi per fronteggiare la gravissima crisi finanziaria ma non ha mosso un dito per bloccare la fuga di capitali all’estero, stimati in una decina di miliardi di dollari e tutti controllati dalla “casta”. 

Prescindere alla “primazia” dell’emergenza militare non era possibile, ma la rifondazione politica di cui ha bisogna il Libano forse è più difficile ancora e di certo di pari urgenza: si tratta di uscire da un sistema confessionale-feudale, e ricostruire il Libano delle imprese, delle libertà, del pensiero critico, come è stato per tanti decenni, quelli che ne hanno fatto una bandiera per tutto il mondo arabo contro suoi opposti totalitarismi. Il modo scomposto in cui si è giunti a questo voto conferma che il Libano deve decidersi a riprendere in mano il proprio futuro;  non lo faranno gli altri al suo posto. 

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